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 2013  aprile 22 Lunedì calendario

COSÌ IL COLLE PREPARA IL CAMBIAMENTO

La sorpresa del bis di Napolitano ha portato con sé un imprevisto effetto collaterale. Anche se il Presidente, fin dal momento in cui ha annunciato la propria disponibilità, ha tenuto a precisare che solo di riconferma, e non di altro, si era parlato, nei colloqui preventivi con i leader, s’è egualmente diffusa la voce che il suo primo atto, dopo la proclamazione e il giuramento, sarebbe la nomina di un esecutivo guidato da Amato o Enrico Letta, e appoggiato da una maggioranza Pd-Pdl.

Una sorta di miracolo, date le difficoltà che per cinquanta giorni hanno ostacolato il tentativo di Bersani. E, insieme, una svolta di restaurazione, come se appunto il terremoto che ha travolto il Parlamento, superato faticosamente con la rielezione del Capo dello Stato, potesse solo produrre un ritorno al passato, o addirittura un premio al partito che ha avuto la maggiore responsabilità del disastro.

Una simile soluzione, con l’aggiunta di ministri politici scelti negli stati maggiori dei partiti fino a ieri avversari, e nell’ipotesi, domani, alleati, sarebbe proprio l’esatto contrario di quel che ci si aspetta dal Presidente appena rieletto. E forse, azzardiamo, di quel che ha in testa, e si accinge a spiegare oggi, Napolitano. Questo, sia detto, anche se Amato non ha alcuna responsabilità di quanto è accaduto, e Letta, nei momenti più drammatici, s’è adoperato per far ritrovare al Pd la via della ragionevolezza. E anche se entrambi, non c’è bisogno di dirlo, hanno sufficienti capacità ed esperienza per guidare un governo.

Infatti non si tratta di accontentarsi di un nuovo esecutivo tecnico, equidistante dai due maggiori schieramenti e nominato solo per fare le cose più urgenti. Al contrario, grazie al sostegno larghissimo che ha ottenuto dalle Camere riunite, Napolitano - dopo aver stupito tutti nel novembre 2011, tirando fuori dal suo cilindro Monti -, è atteso a un altro colpo di fantasia politica, di quelli che solo lui ormai sa e può produrre, in circostanze eccezionali e con la sua autorevolezza.

Un governo che sia di vero cambiamento e cerchi di ridare forza a una politica ridotta allo stremo, grazie al prestigio nell’opinione pubblica delle personalità che lo compongono: ecco cosa ci vuole. Politici e tecnici insieme: l’importante è il dato di novità, che dovrà essere forte. La ragione per cui si può scommettere che Napolitano cercherà di riuscire nell’impresa, e i partiti non riusciranno a ostacolarlo, sta nel fatto che una cosa del genere - adoperando un termine improprio - andrebbe fatta «alla comunista»: con un metodo, cioè, che al Presidente, non fosse che per la sua biografia, risulta molto familiare. E si riferisce all’epoca in cui il vecchio Pci, pur non potendo avere piena agibilità politica a causa della propria ispirazione ideologica e dei legami internazionali, riusciva a svolgere un ruolo importante, grazie al proprio insediamento nella società e alla capacità di collegarsi spesso portandole in Parlamento o coinvolgendole in ruoli pubblici - a personalità lontane dal proprio mondo, ma disposte a confrontarsi e a collaborare. Erano fondati su questo, in epoca berlingueriana e precaduta del Muro di Berlino, il ruolo che il Pci esercitava sulle principali scelte del Paese e le relazioni che manteneva con le maggiori istituzioni pubbliche e private, come Banca d’Italia e Fiat. Rapporti mai fondati sulla compiacenza, ed anzi spesso improntati al riconoscimento delle distanze reali e dei diversi obiettivi. E tuttavia sempre caratterizzati dal rispetto e dalla considerazione reciproca.

In che modo un metodo del passato possa ancora funzionare nell’inferno politico attuale, è presto detto. Per non fare il «governo della restaurazione» - e allo stesso tempo per evitare di rialzare il muro del pregiudizio verso i politici, facendo un favore all’antipolitica dilagante è necessario che le figure principali dell’esecutivo siano scelte secondo un criterio di riconoscibilità e di apprezzamento. Per esempio - ed è stata la mossa più riuscita di Renzi, nel vivo della battaglia del Quirinale -, proponendo un uomo come Chiamparino: sindaco eletto due volte dai torinesi (la seconda con quasi il 70% dei voti), in grado di muoversi agevolmente tra la quotidiana amministrazione comunale e una grande scadenza internazionale come le Olimpiadi invernali del 2006. O ancora i diversi soggetti che, nel passaggio da incubo dei primi giorni della corsa al Quirinale, sono riusciti ad avere lo stesso un ruolo positivo. Ad esempio, alcuni dei candidati (spesso a dispetto degli stessi militanti del Movimento 5 Stelle) delle Quirinarie volute da Grillo: a cominciare, ovviamente, da Rodotà, che s’è battuto lealmente fino all’ultimo, ma quando ha visto l’ex-comico scherzare con il fuoco della piazza e con il dileggio delle istituzioni, lo ha fermato con il peso del suo prestigio. O Bonino, che avrebbe avuto un ruolo scombinatore, grazie alla sua conclamata indipendenza, in una gara azzerata da interessi partigiani. O Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno, che per qualche ora è arrivata vicina alla meta. L’elenco si potrebbe idealmente allargare alla vincitrice delle Quirinarie, Milena Gabanelli, che ha responsabilmente declinato, e anche ad altri. Un esterno come Salvatore Settis, il professore che non ha insistito, né ha sgomitato per entrare nella gara per il Colle, e s’è limitato a suggerire - inascoltato - ai partiti di prestare maggior attenzione alla voce del Paese reale.

Grande impegno e dignità, anche a dispetto delle molte ironie e del dileggio sul loro lavoro, hanno dimostrato i saggi, chiamati da Napolitano al Quirinale, nel tentativo di sbloccare la crisi politica con un elenco di problemi e soluzioni condivise, che non a caso potrebbero entrare nel programma del nuovo governo. Non stupirebbe che il Presidente, oltre ad avvalersi dei loro consigli, ritenesse di chiamare qualcuno di loro come ministro. In questo caso sarebbe veramente spiacevole che dai partiti o dalle aree di provenienza di alcuni di loro, più vicini alla politica, venissero dei veti. Quagliariello, Violante o Giorgetti hanno avuto, tra i saggi, lo stesso ruolo di Pitruzzella o Rossi. E se il documento finale della commissione ha potuto essere completato, anche in presenza di dichiarati dissensi su alcuni punti, lo si deve all’esperienza politica e al lavoro pregresso fatto in Parlamento nella scorsa legislatura. A loro andrebbero aggiunti i giudici costituzionali Sabino Cassese, Sergio Mattarella e Franco Gallo, il dirigente di lungo corso di Bankitalia Fabrizio Saccomanni, il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, il presidente del Censis (e autore del rapporto annuale sull’Italia) De Rita, attorno a quali s’è cercato di costruire consenso, senza trovarlo. Annotazioni che potrebbero essere accostate anche ai due Presidenti delle Camere: eletti in uno spirito nuovo (subito abbandonato per tornare alle lotte politiche intestine), accompagnati da riserve, nei primi giorni, ma definitivamente laureati per il modo esemplare in cui hanno condotto le votazioni a Montecitorio, mentre intorno a loro infuriava la guerra civile. L’immagine dei due nuovi presidenti insieme al Capo dello Stato, l’altra sera al Quirinale, simboleggiava una continuità istituzionale rassicurante, di questi tempi.

Naturalmente, accanto a questo variegato insieme di possibili premier o ministri (ciascuno dei quali, va sottolineato, non ha mai mostrato ambizioni e s’è ritirato in buon ordine, in qualche caso anche senza ringraziamenti) potrebbero - e dovrebbero - stare i politici. A pieno titolo, non in un ruolo supplente, e men che mai in condizione di subalternità. Una politica in grado di aprirsi, di confrontarsi, di ragionare, non solo in termini di scontro e di pesi di corrente, con chi proviene dalla società civile, o è tornato tranquillamente a farne parte, senza rimpianti, sapendo che il potere non è tutto, dimostrerebbe un’inimmaginabile capacità di rigenerarsi e rientrare in sintonia con il sentimento di disillusione che viene dalla gente normale. E un governo nato così, oltre a godere dell’appoggio, e quando ci vogliono, delle critiche, di un larghissimo schieramento parlamentare, potrebbe essere molto più rispettato, e temuto in qualche caso, per la sua serietà, anche da chi non lo sostiene. Forse Maroni comincerebbe a ripensare all’anomalia di governare la Lombardia da Milano, stando a Roma all’opposizione. E quanto a Vendola e Grillo: con un governo siffatto, in piazza o sulla rete, si sentirebbero più soli.