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 2013  aprile 22 Lunedì calendario

LA RIELEZIONE DI «RE GIORGIO». UN PASSO VERSO IL PRESIDENZIALISMO

Una volta, alla scomparsa del monarca che aveva regnato fino a quel momento, se ne dava l’annuncio con una formula solo apparentemente retorica, ma che diceva due cose contemporaneamente, con spirito di realtà e con preveggente saggezza politica: «È morto il re, viva il re».
Con la prima, si diceva che il vecchio re non c’era più; con la seconda, si confermava che la monarchia c’era ancora. Non era solo un modo rituale di ribadire la continuità storica, e costituzionale, della monarchia come istituzione, indipendentemente dalla persona di chi, nelle diverse contingenze temporali, la incarnava. Era la realistica distinzione fra la costanza storica dell’Istituto monarchico e l’umana provvisorietà della carica di re regnante. Del resto, è la stessa formula — «è morto il Papa, viva il Papa» — che sostanzia l’automatismo profetico attraverso il quale, alla scomparsa di un Pontefice, si dà per scontata la prossima intronizzazione del suo successore e quindi la continuazione del Pontificato.
A causa delle crescenti difficoltà di costituire un nuovo governo e persino di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, le forze politiche, approssimandosi la fine del mandato di Giorgio Napolitano, hanno adottato — per salvare ciò che restava della Repubblica, nata col referendum istituzionale del ’46 e con la Costituzione del ’48, e la stessa democrazia — una formula paradossale che, da noi, prende il nome di Costituzione materiale: «È morta la Repubblica rappresentativa; viva la monarchia costituzionale, viva il re».
Nulla di particolarmente sconvolgente. Nessuno si sognerebbe di sostenere che la monarchia costituzionale inglese, ancorché presieduta correttamente da un re o da una regima, non sia anche una democrazia liberale. Inoltre, la soluzione sembra, addirittura, un passo avanti verso la futura trasformazione, auspicata da più parti, del nostro Ordinamento in Repubblica presidenziale come quello di altri Paesi non meno democratici dell’Italia. Che piaccia o no — le sue tracce sono già sottese nella stessa Carta costituzionale del ’48 all’articolo che riguarda la figura e le funzioni del presidente della Repubblica — essa assomiglia, infatti, troppo a quella francese, che i cugini costituzionalisti d’oltralpe chiamano, non a caso, una «monarchica Repubblica presidenziale», per non indurre a qualche riflessione.
Anche la sola prospettiva di trasformare la nostra Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale era stata respinta in passato, soprattutto da parte della sinistra comunista e postcomunista, come un pericolo di dittatura, se non, addirittura, di ritorno al fascismo. Persino un antifascista storico come Randolfo Pacciardi, già combattente in Spagna per la Repubblica dopo il golpe franchista e l’intervento dell’Italia fascista a fianco di Franco, era stato bollato come un pericoloso estremista di destra, sovversivo dell’Ordine costituito, garantito dalla «più bella Costituzione del mondo», solo per aver accennato alla opportunità del cambiamento. Dopo che l’esperienza ha mostrato che quello non era stato solo un pregiudizio ideologico, bensì, anche e soprattutto, un abbaglio istituzionale; e dopo che a «smuovere le acque» è stata addirittura la sinistra, la prospettiva pare, ora, tutt’altro che irreale. Miracoli della cultura egemone, direbbe la buonanima di Gramsci...
Con la rielezione di Giorgio Napolitano ancora, formalmente, a presidente della Repubblica, ma, di fatto, in una veste e con funzioni politico-istituzionali sui generis, più che aver realizzato una anomalia costituzionale, a me pare francamente si sia solo concretata una singolarità dovuta più al malfunzionamento di una Costituzione nata da un pasticciato compromesso che a una sua evoluzione in senso autoritario. Insomma, il paradosso istituzionale di «una monarchia costituzionale presieduta da un presidente della Repubblica» a me pare che nulla tolga, sotto il profilo politico, alla sua lealtà democratica né faccia assumere al ruolo «salvifico» che il «re repubblicano» verrà progressivamente ad assumere una fisionomia men che corrente con i tempi.
Parlare di «gratitudine» nei confronti di «re Giorgio primo» a me pare, dunque, non abbia molto senso. La sua disponibilità a essere rieletto e la sua rielezione sono state una manifestazione di realismo machiavelliano sia che la si giudichi dalla prospettiva di una classe politica simile a un’armata Brancaleone, sia dalla prospettiva di un ex comunista — gli scritti di Gramsci sul Principe fanno testo al riguardo — che al realismo ha informato l’intera sua vita politica prima e dopo la fine del Pci.
L’Italia repubblicana e democratica era prossima alla «sindrome di Weimar» — la fragile Repubblica tedesca spazzata via da Hitler — o, se si preferisce, pareva andare verso una riedizione del tragico 1922. Non c’erano (ancora) all’orizzonte lo spettro di un nuovo Hitler e neppure la parvenza di un’offerta di ordine da parte di un «uomo della Provvidenza» che assomigliasse a Mussolini. Il tempo dirà se la soluzione adottata è una buona soluzione, ovvero solo un furbastro tentativo delle forze politiche di guadagnare tempo scaricando su Napolitano, nella sua nuova veste «materiale», l’onere di dare soluzione al problema della sopravvivenza e della stabilità del sistema politico. Non ci facciamo, come Paese, una gran figura agli occhi del mondo. Ma molti dicono fosse la sola soluzione possibile.
Piero Ostellino