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 2013  aprile 21 Domenica calendario

GRAZIA NERI

MILANO Quante? Dieci, dodici milioni. Sono le fotografie passate, in oltre mezzo secolo, attraverso la dogana di questi occhi pungenti, che basta un sorriso a stringere fino a farli diventare orientali.
Grazia Neri sorride spesso, e basta quel sorriso per riconoscerla. È lo stesso sorriso di questa soave bambina di dieci anni con la vestina bianca e il fiocco tra i capelli, obbediente agli ordini del fotografo di studio, mettiti così, guarda di là. «Sorridevo, sì, ma fu uno sfinimento, quella seduta di posa», è un foglio di “provini” con decine e decine di scatti che Grazia tira fuori da una busta nel suo caotico studio, timida ma divertita. «Lo feci per la mamma, fu lei a volere quel rito fotografico del sorriso, forse come antidoto alla perdita di papà, pochi mesi prima, o alla guerra appena finita».
Quella faticosa performance in bianco e nero era forse un rito, ma di premonizione. Una decina d’anni più tardi, senza quasi averlo voluto, Grazia Neri imboccò la strada che la portò a diventare la signora della fotografia italiana, la prima donna a capo di un’agenzia fotogiornalistica internazionale, l’arbitra assoluta di quel che gli italiani vedevano del mondo.
Tanto che molti credettero che le facesse tutte lei, le foto. Lei, che in tutta la vita ne ha scattate «meno delle dita di due mani»: ai suoi due mariti, a suo figlio, poi basta «perché non avevo tempo, e le vacanze volevo godermele». E invece sembrava la più frenetica fotografa del mondo. Colpa di quella righetta, “Foto Grazia Neri”, che era riuscita a ottenere fosse stampata a lato di tutte le foto che vendeva ai giornali, quel “credito” fino ad allora inedito nella cultura editoriale italiana, da sempre poco rispettosa del copyright, quel tag su cui il figlio Michele ha sempre ironizzato: «Mia mamma è quella scritta in verticale sui giornali».
Pensavano tutti che fosse una fotografa formidabile, instancabile, capace un giorno di rischiare la vita in Vietnam e il giorno dopo di sorprendere le dive sulla Croisette di Cannes, «ma come fa?». E lei a spiegare che le foto le facevano gli altri, che lei se le faceva mandare dai fotografi e le vendeva ai giornali, che non c’era stato il tempo di trovare un bel nome per l’agenzia («Mi piaceva Contact, ma era già preso»), e che c’erano le prime fatture da intestare, il ragioniere faceva fretta, e allora «per adesso la chiamo come me, poi ci penserò», e non ci pensò mai più. Così restò Grazia Neri, «tanto gli americani pensavano volesse dire qualcosa come “grazie al bianco e nero”, non so...», sinonimo in tutto il mondo di professionalità, competenza e gusto così poco italici: «Avevo trovato un mercato disastrato, prima di me i fotografi americani avevano paura a vendere i loro servizi in Italia, non si fidavano». E lei d’improvviso lo cambiò, lo educò: «Tranne alcuni, i direttori dei giornali non sapevano da dove si cominciasse a guardare una foto» e lei, imparando dai suoi amici stranieri, glielo insegnò, e diventò celebre senza accorgersene. «Quando andavo a New York, Life mi trattava da regina, cene e grandi alberghi...». Amata come una sorella dai fotografi di tutto il mondo, giudice inappellabile del valore di una fotografia: «I giornali, in Italia, li fa la Grazia Neri», disse un celebre direttore. Non era proprio così, ma di sicuro è stata lei a “spiombarli”, a renderli guardabili, immaginabili.
Lei, che di fotografie non sapeva nulla. Che amava i libri, invece. Disperatamente, avidamente: «I miei vice-genitori ». La mamma la portò dal medico, preoccupata perché leggeva troppo, dottore avrà mica una malattia? «Spianavo e leggevo i fogli di giornale dov’erano incartate le carote...». Voleva fare l’edicolante, da grande. O la giudice. In un certo senso, è riuscita a fare entrambe le cose. Di certo è riuscita a non fare la segretaria, «che era l’obiettivo delle ragazze della mia generazione, ma il mio orrore». Diplomata in lingue, niente soldi per l’università, prese al volo quell’impiego in un’agenzia di intermediazione di testi, traduzioni e anche fotografie. E con sua grande sorpresa scoprì che le sapeva valutare molto bene, e in fretta, le fotografie. I clienti erano contenti delle sue scelte. E un giorno,
con suo maggior stupore, decise di farlo da sola, per conto suo.
Il salotto di casa Neri, zona semicentrale di una Milano «ormai povera e senza sogni» ma impossibile da abbandonare dopo settantotto anni di vita e cinquantasei di lavoro, è pieno dei suoi due amori. Pile di libri sui tavoli (Naipaul, Tabucchi, Dickens, l’adorato Rimbaud...) e mosaici di fotografie sui muri, un’antologia di firme da museo, quasi tutte in bianco e nero, quasi tutti doni con dedica, alcuni acquisti. Una Marilyn rosea e conturbante fra lenzuola candide abbraccia il cuscino, è un celebre scatto di Douglas Kirkland. «Guardi... Più da vicino... Vede? Le labbra, gli occhi, come sono veri... Provi a guardare i ritratti delle attrici d’oggi: piallati a colpi di Photoshop. Anche le fotografie di reportage adesso sono tutte levigate, altrimenti non ci vinci i premi. Io amo la foto classica, composta, narrativa, che porta a casa le cose e le persone. Invece, tra i ritocchi cosmetici e la follia della privacy, fra un secolo non sapremo più come eravamo davvero, com’era questo mondo».
Da un paio d’anni, Grazia Neri è tornato a essere il nome di una signora e non di una ditta. L’agenzia ha chiuso i battenti dopo cinque decenni, tra la costernazione dei fotografi, stroncata dalla rivoluzione digitale, dall’alluvione di fotografie a basso costo, dall’avvento dei monopoli multinazionali dell’immagine, dalla caduta verticale della cultura visuale. Restituiti agli autori milioni di scatti in archivio, il resto depositato al Museo della fotografia di Cinisello Balsamo. Da quei mille metri quadri dove erano arrivati a lavorare 35 dipendenti, Grazia ha portato a casa solo un quadretto con un precetto in rima: “Articolo quinto, chi ha la foto ha vinto”. Stava appesa sopra la sua scrivania, era la regola d’oro. Avere la foto, avere la migliore, averla subito. Fin da quando le fotografie viaggiavano nei plichi postali, «con l’angoscia che non arrivassero». Ci vollero ad esempio cinque giorni d’ansia per avere in mano le prime foto dal Sinai della Guerra dei Sei Giorni. Ma poi quelle foto strepitose finivano in prima pagina, pagate bene. Grazia Neri arrivò a rappresentare in esclusiva il 70% del fotogiornalismo mondiale, senza mettere sotto contratto nessun fotografo. Pura fiducia. Maturata quando, agli esordi, pur di pagare i fotografi rigorosamente a fine mese, lei faceva lavoretti extra, traduzioni e cose così.
Dolcissima e implacabile giudice. Amata e temuta. «Una fotografia non esiste se non viene guardata»: ma deve meritarselo. «Rimpiango di aver stroncato troppo poco, magari per compassione ». Ogni mattina, per anni, dentro centinaia di buste, migliaia di foto hanno atteso sulla scrivania il suo sguardo. «Una sola domanda: questa foto racconta qualcosa? Una sola risposta: sì o no». Non ha mai delegato quel compito, il giudizio di qualità, a nessuno. «Sono ansiosa, sono curiosa, e soprattutto sono una tremenda
control freak». Ma con grande rispetto per i fotografi. «Il mio lavoro sta prima e dopo lo scatto, devo sapere in fretta quali foto serviranno ai giornali, poi valutare se le foto che mi arrivano sono quelle giuste. Ma la scelta è del fotografo». Li ha amati, riamata, a cominciare dai suoi preferiti: Suau, Nachtwey, e il più adorato di tutti, Gilles Caron, «uno sguardo carico di umanità», morto in Cambogia.
Le dispiace un po’ che alcuni la considerassero solo una venditrice. Di fatto, era la photo-editor del giornalismo italiano, che nelle redazioni ne aveva pochi, di intenditori di foto, «così io fornivo tutto, le foto, le didascalie precise, il background, e anche il giudizio di valore dell’immagine». Scoop, tanti: la foto dell’attentato al papa, con la pistola che spunta dalla folla, recuperata dalla macchinetta di un turista australiano, o la foto del cadavere di Moro nella Renault presa da un fulmineo Gianni Giansanti. E anche scoop rifiutati. I cadaveri di Pasolini e di Moro all’obitorio, il cadavere di Kappler, «io non trattavo quella roba. Non erano notizie, non raccontavano nulla». Avrebbe venduto la foto del cadavere di Bin Laden? «No. Ma se avesse rivelato una storia inedita sulla sua morte, allora forse sì».
Se fosse sbarcato un marziano a Milano, Grazia avrebbe pensato solo a una cosa: «Strappargli l’esclusiva fotografica dei suoi primi tre giorni sulla Terra». Ora arriverebbero prima i ragazzini col fotocellulare. È tutto cambiato. L’articolo quinto non è più in vigore. «Non c’è più lo scoop, c’è solo il gossip. Si fanno miliardi di foto, ma tutti vogliono vedere sempre le stesse, quelle che hanno già in testa, e questo mi fa male, non c’è più curiosità della scoperta, ci sono solo icone». E quei ragazzi con la Nikon al collo che iniziano adesso? «Bravi, coraggiosi, ma si facciano prima due domande: ho qualcosa da raccontare? Ho dei soldi da parte?».
Feltrinelli le ha pubblicato La mia fotografia, appunti memorie riflessioni, una non-autobiografia generosa: di quattrocento pagine, cento ne ha tenute per sé, il resto per parlare dei “suoi” fotografi. Si è scritta da sola il benservito: «Ho letto disperatamente, ho lavorato come fosse un gioco, ho amato con amore, non sono stata all’altezza». Appesi a una parete, gli occhi orientali, felici, appagati di Grazia, nel ritratto che le fece Kirkland, il fotografo di Marilyn, dicono che almeno l’ultima affermazione non è vera.