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 2013  aprile 21 Domenica calendario

SULLE ROVINE DI MONTECITORIO IL MALINCONICO RITORNO DELL’UOMO CHE NON VOLEVA PIÙ

IL CIELO è tornato nuvoloso e l’aria fredda, all’imbrunire piazza Montecitorio è piena di transenne, telecamere e mezzi blindati; e se pure la tristezza non è generalmente una categoria della politica, come si fa a ignorarla, come è possibile negare che tutto qui intorno sa di miseria e sconforto?
Gli applausi che nell’aula salutano l’elezione di Napolitano risuonano, per chi abbia il cuore di sentirlo, come l’ultima tassa pagata all’inganno e all’ipocrisia. Bersani piange. Altri leader sorridono pavoneggiandosi. Ma poi hanno paura a uscire dal Palazzo.
Il nuovo presidente è molto vecchio. Negli ultimi mesi si commuoveva facilmente. I brillanti strateghi che l’hanno richiamato sanno benissimo che non ce la faceva più, in mille modi lui stesso gliel’aveva detto. Non erano complimenti di circostanza, a quell’età i desideri sono più preziosi e le necessità dolorosamente imperiose. Ma figurarsi la delicatezza d’animo di certa gente. Aveva reso noto il Capo dello Stato già nel gennaio del 2012: «Diciamolo francamente, la stanchezza c’è». Neanche una settimana di riposo gli hanno concesso, povero Napolitano.
Mai ritorno appare dunque più malinconico. E tale sentimento rischia di svuotare le cerimonie inaugurali facendo vibrare una nota di mestizia sullo scampanio di Montecitorio, i 21 colpi di cannone, il viaggio sulla Flaminia decappottabile.
Il sollievo è tutto dei responsabili del disastro annunciato e puntualmente realizzato negli ultimi giorni, ma a pensarci bene anche negli ultimi anni. Come ragazzetti impuniti hanno chiamato il papà a cavarli dagli impicci in cui si erano cacciati e dai quali, peggio, proprio Napolitano li aveva fin troppe volte messi in guardia.
E loro, ai tempi, alzavano gli occhi al cielo, si facevano burla dei «moniti » - si pensi alla modifica del Porcellum - e continuavano a farsi gli affari loro. A mezza bocca criticavano anche il presidente: per aver concesso ossigeno a Berlusconi, per essersi inventato Monti, per le intercettazioni palermitane, per aver ricevuto i berlusconiani dopo la performance al tribunale di Milano.
Il risultato elettorale era già una tragedia, al tempo stesso algebrica e politica. Ma neppure l’incarico a Bersani andava bene, per non dire dei saggi, tutti maschi e anomali, inutili, incostituzionali, monarchici e perfino pericolosi.
Alla fine del mese scorso, cioè appena 20 giorni orsono, si sparse la voce che Napolitano voleva dimettersi. Non era vero. Ma a parte la fatica, dal Colle era filtrata una frase che a rileggerla oggi procura il più vivo avvilimento: «Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente».
Ora, il personaggio viene da antica scuola politica. In un paese di cialtroni gode rarissima fama di persona seria. Insomma, non è tipo da giocare con le parole. Nella sua ricca e recentissima biografia L’ultimo comunista
(Chiarelettere) Pasquale Chessa ha scovato una lettera inedita in cui nel 1990 Napolitano, polemizzando con Ingrao, rivendica di non aver «mai fatto una battuta in vita mia». Ieri quegli stessi ai quali era rivolta l’accusa l’hanno implorato di tornare e rapidamente l’hanno rieletto al Quirinale. E il giorno stesso erano di nuovo lì a trafficare e a battagliare sui futuri ministri di un governo che forse non si farà mai. Con il che, da sentimento individuale, la tristezza rompe gli argini, si fa giudizio politico e invade la vita pubblica.
Il Parlamento che ha eletto Napolitano è lo stesso che ha silurato a tradimento il povero Marini, ha massacrato Prodi, ha visto la Mussolini sfilare in aula con la sua maglietta «spiritosa » e depositare schede a nome di Valeria Marini, del conte Mascetti e di Rocco Siffredi. Una congerie nevrotica e burlona del tutto incapace di esprimere soluzioni all’altezza del dramma italiano. L’unico possibile esito era quello di tenere lì, su quella poltrona, disperatamente, l’uomo che meno ci voleva stare. Ma che importa? Ciò che conta, ma non si può né dire né ammettere, ciò che ha portato al ritorno di Napolitano sono gli impossibili organigrammi da compilarsi a cura dei troppi aspiranti ministri, il Gran Trofeo del Pd e dei suoi trafelati rottamatori, la salvezza giudiziaria di Berlusconi, magari il prosieguo della carriera del professor Monti.
Dentro la cabina i Grandi elettori fotografavano le schede e pare acclarato che si fregassero anche le matite. Se n’è accorto il senatore Vecchio, siciliano, che ha fatto finta di niente: «E che facevo? Uscivo dicendo a Grasso che “si futtiru i matiti?». Se non è un ammissione di fallimento, questo estremo ricorso al quasi 88enne
deus ex machina, è comunque una desolazione anche solo il pensiero che lo sia. E seppure occorre dire grazie a Napolitano, alla sua dignità, al suo riserbo, è bene anche tener presente che le pezze - e lui certo non si può definire tale - comunque non reggono, le furbizie collettive si ribaltano in scemenza generale e i sacrifici altrui prima o poi si pagano con gli interessi.
Scalfaro fu eletto nel 1992 sull’onda della strage di Capaci. Ma anche qui e oggi le rovine sono visibili, i detriti e le macerie ostacolano il cammino degli uomini di buona volontà e l’unica speranza è che la bancarotta del sistema ex partitocratico non affligga lo stesso presidente della Repubblica, vecchio e nuovo nel suo compito, costringendolo a chiedersi quali spaventosi errori ha compiuto la sua generazione e perché le culture politiche sono sprofondate in un abisso di disastri e pagliacciate.
Così per beffardo paradosso si stringe il cuore dinanzi alla solidità morale, alla nobiltà culturale, alla coscienza, allo scrupolo, alla competenza di una figura che già sette anni fa era considerata d’altri tempi. E che oggi ritorna per salvare la politica dalla sua stessa affaticata decadenza.