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 2013  aprile 20 Sabato calendario

DALLA SFIDA APERTA AL PATTO COL GIAGUARO COSI’ CADE UN LEADER

La sua parabola discendente è cominciata poco dopo il suo grande successo, quello delle primarie tra novembre e dicembre quando sconfisse Matteo Renzi. In quel momento Pier Luigi Bersani aveva toccato le stelle, vincendo con il 60% dei voti una battaglia difficile contro un avversario che incarnava tutte le doti che lui non aveva: giovane, spregiudicato, moderno nel linguaggio e nelle proposte, capace di rompere schemi e liturgie tanto vecchie quanto insopportabili. Bersani non le aveva queste doti, tuttavia riusciva a trasmettere sicurezza, competenza, capacità di rispondere alle domande di fondo che il paese si poneva. Quelle che riguardano la crisi economica, il lavoro che manca, insomma il futuro. Bersani dava la sensazione di sapere esattamente cosa fare per rimettere in piedi l’Italia. Calmo, addirittura serafico in certi casi, non si lasciava mai prendere dal nervosismo né tantomeno dal panico, almeno in pubblico.

Ma è bastato che Berlusconi sfiduciasse Monti e che lo stesso Monti scendesse nell’arena politico-elettorale, che lo schema di Bersani saltasse in aria. Come succede a una squadra di calcio quando prepara la partita con grande cura ma poi incassa un gol dopo un minuto: va letteralmente nel pallone e di gol ne prende altri due o tre, perdendo la sfida che sembrava già vinta. Il leader del Pd infatti la sfida la considerava tale, i sondaggi dicevano questo con un margine superiore ai dieci punti rispetto a quel che all’epoca restava di un centrodestra ridotto a pezzi, senza leader e senza neanche la sua ombra.

Così Bersani ha cominciato la sua campagna elettorale, un’alleanza di ferro con Vendola e via verso il sol dell’avvenire. Via via però quel sole ha cominciato ad essere offuscato da nuvole che si chiamavano Berlusconi e soprattutto Monti. Bersani si è impaurito, non ha capito che doveva andare avanti per la sua strada, rivolgendosi direttamente al paese. Invece si è voltato indietro, ossessionato dal famigerato giaguaro che doveva assolutamente smacchiare e dal premier col quale voleva stringere un patto di governo dopo il voto. Ha ripetuto fino alla nausea la storia del 51 per cento che avrebbe dovuto comportarsi come se fosse il 49, non rendendosi conto che quelle percentuali stavano solo nella sua fantasia ma non nella realtà del paese. Tanto che alla fine non è arrivato neanche al 30%, insieme a Sel per di più.

Si guardava le spalle da Berlusconi, alla sua destra controllava Monti e non si accorgeva di Grillo che nel frattempo cresceva e gli toglieva consensi. Peggio, lo considerava solo un populista, demagogo e anche un po’ fascista. In questo, bisogna dire onestamente, sostenuto da tutto il suo partito e dai suoi alleati. Ma il risveglio è stato brutto per Bersani, non aveva vinto pur arrivando primo, Monti si è rivelato un fenomeno semi-inesistente, mentre Grillo lo ha raggiunto e quasi superato costringendolo a voltarsi dalla sua parte.

In maniera troppo brusca e goffa però, manco erano passati due giorni dal voto che già il segretario dei democratici si proponeva di formare un governo grazie all’appoggio di quelli che fino a poche ore prima considerava comici irrilevanti o ragazzini velleitari. E qui persettimane ha insistito fino alla noia prendendo cazzotti in faccia come tutti hanno potuto vedere in quella micidiale diretta streaming con i due capigruppo del M5S che si sono potuti permettere di irridere il leader del Pd, umiliato pure dal presidente Napolitano che si era limitato a conferirgli un pre-incarico (mai visto nella storia del repubblica). Avesse almeno ottenuto un risultato...

Poi, come nulla fosse, Bersani fa una giravolta che ricorda il famoso «contrordine compagni» del vecchio Pci: il suo nuovo interlocutore diventa Berlusconi, per eleggere insieme il nuovo capo dello Stato e poi, ovviamente, per governare insieme in una qualche forma. D’accordo col Cavaliere candida Marini che però viene silurato dagli stessi democratici. Oplà, nuova giravolta: basta con Berlusconi, si torna alle origini con Prodi. Ma nemmeno Prodi passa, anche lui bocciato impietosamente dal suo partito. Che forse hanno colpito i due candidati per affossare proprio Bersani, che infatti alla fine capisce il messaggio e si dimette. Magari, chissà, se avesse accettato di votare Rodotà oggi avremmo un nuovo presidente della Repubblica e domani sarebbe nato un premier di nome Bersani...