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 2013  aprile 20 Sabato calendario

ROMANO E IL «SUO» ULIVO. STORIA DI AMORE (POCO) E ODIO

Il pallottoliere stavolta no, in viaggio dal Mali Romano Prodi non se l’era procurato. Quello strumento per far di numero è infatti il simbolo dell’episodio parlamentare che ha condensato in modo crudele il legame conflittuale tra il mondo del centrosinistra e il suo leader nel corso della Seconda Repubblica. Quel pallottoliere che nel novembre del ’98 dimostrò quanto il cerchio magico prodiano avesse fatto male i conti. I voti della fiducia in Parlamento mancarono all’ultimo. Finiva il primo governo Prodi dopo due anni di perigliosa navigazione. Bertinotti se ne andava. Si preparava il governo D’Alema. Ma non sarebbe stata l’ultima, gigantesca amarezza aritmetica che Prodi ha dovuto subire da quelli che avrebbe dovuto essere, ieri come quindici anni fa, suoi fedeli supporters.
Prodi e il suo Ulivo. Prodi e la sua Unione. Prodi e il suo Pd. Ma il suo Ulivo, la sua Unione, il suo Pd l’hanno sempre vissuto come un corpo estraneo. C’erano gli ex comunisti, divisi anche loro da avversioni inscalfibili, ma che comunque sentivano il calore di una comunità, di un lessico, di un’iconografia, insomma di una storia. Poi c’erano gli ex democristiani, poi Popolari, anche loro con le stesse consuetudini. A rigore Romano Prodi non poteva non essere considerato anche lui come un ex democristiano. Ma fu catapultato sul centrosinistra ancora frastornato dal trionfo di Berlusconi, chiamato da Beniamino Andreatta, per fare il federatore, l’esterno che avrebbe messo insieme i tasselli del mosaico. Questo ruolo non poteva essere incarnato da un ex comunista, perché a pochi anni dal crollo del muro di Berlino era inimmaginabile che una figura così, un figlio di Botteghe Oscure, potesse conquistare la maggioranza "silenziosa", l’elettorato moderato, instabile, oscillante, incerto ad ogni elezione se scegliere la destra o la sinistra. Ma non poteva essere incarnato nemmeno da un ex dc, perché la disfatta di Tangentopoli era ancora troppo angosciosa, il partito si era frantumato, il suo popolo disperso. Il salvatore, esterno, poteva essere solo lui, Romano Prodi.
Prodi che aveva l’antiberlusconismo nel suo Dna culturale. Aveva fatto il ministro di Andreotti, ma come capo dell’Iri, il primo dei boiardi di Stato, uno dei protagonisti del cenacolo intellettuale bolognese del Mulino in cui prendeva forma il cattolicesimo democratico con una forte propensione ad interloquire con il mondo del Pci, non poteva che nutrire un’ostilità antropologica assoluta nei confronti del craxismo prima e soprattutto del berlusconismo: il mondo scollacciato e sgangherato della tv commerciale, la volgarità, l’economia del self made man e non quella da insegnare nelle aule universitarie e nei consessi internazionali che contano. Prodi salvò il centrosinistra dal dominio berlusconiano. Ma è sempre stato vissuto con una punta di rancore, in modo sordamente ostile. C’erano i "prodiani", ma si sentivano circondati dal gelo degli orfani dei grandi partiti. Coltivavano relazioni economiche di altissimo livello, ma non avevano, come si dice, "radicamento". Servivano per vincere le elezioni. Ma dopo un po’ dovevano farsi da parte.
E mentre gli ultrà del prodismo come Arturo Parisi teorizzavano addirittura lo scioglimento dei partiti, l’Ulivo stentava a trasformarsi da cartelle elettorale a partito, inevitabilmente guidato da Romano Prodi. Nel ’98 il ribaltone fu un colpo brutale, un assalto finale alla diligenza condotta da Prodi. Il quale, da quel momento, coverà propositi immarcescibili di vendetta, specialmente con Massimo D’Alema, ma anche con Franco Marini (suo predecessore nell’impallinamento rituale di questi giorni) e persino con Walter Veltroni, reo, a suo parere, di non aver contrastato con sufficiente forza il disegno di D’Alema a Palazzo Chigi e lo stesso Veltroni alla guida dei Ds. «No, noooooo», gridava infuriato Prodi dal palco all’indomani del giorno del pallottoliere, con Veltroni alle sue spalle, a chi gli chiedeva un gesto distensivo nei confronti dei congiurati. D’Alema fu poi il più fervente architetto della nomina di Prodi alla guida dell’Ue, e i soliti maliziosi interpretarono tanta generosità come un modo dalemiano furbo di spedire l’ex leader dell’Ulivo lontano da Roma, di neutralizzarne gli impulsi vendicativi.
Storia finita, sembrava. Sembrava e basta. Perché al termine del quinquennio berlusconiano, periodo nel quale i due partiti pilastri della coalizione hanno perso molto tempo prima di decidersi a una formale unificazione, Prodi fu nuovamente chiamato a contrastare il nemico, stavolta descritto dai fallaci sondaggi come un cadavere politico. Di nuovo. Con un’unica differenza: che l’Ulivo era stato ribattezzato Unione, per includervi, imprigionandolo in un gigantesco carcere cartaceo detto anche "Programma", quel Bertinotti che già si era defilato nel 1998 provocando la caduta di Prodi. Un’Unione in cui ci stava dentro di tutto, dall’ala trotskista di Rifondazione comunista all’ipermoderatismo di Lamberto Dini e di Clemente Mastella. Vennero fatte anche delle primarie, per rafforzare la leadership prodiana nel popolo di centrosinistra. Si dimostrò però che Berlusconi non era affatto un cadavere politico, avvicinandosi al multiforme schieramento prodiano di poche migliaia di voti. E si dimostrò che il governo Prodi non avrebbe avuto vita facile, con un margine risicatissimo e con i senatori a vita a far da guardiani a Palazzo Madama. Ribattezzarono quell’esperienza «un Vietnam», per dare l’idea dell’idillio. Fecero anche il Partito democratico con Veltroni leader. Ma a quel punto anche il secondo governo Prodi era agli sgoccioli, e non tutti nel centrosinistra si strapparono le vesti per quell’ennesima dipartita. Sembrava finita. Per Prodi si erano schiuse le porte di impegni internazionali di alto livello, con missioni africane sotto l’egida dell’Onu e per lezioni di economia nella Cina capital-comunista. Fino alla crudeltà dell’ultima chiamata finita ieri in una disfatta immeritata da un uomo che comunque aveva portato il centrosinistra due volte nelle competizioni elettorali con Berlusconi. L’ultimo oltraggio che il suo mondo gli ha voluto infliggere. L’ultimo atto di una storia di amore e odio (molto più odio che amore).
Pierluigi Battista