Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 19 Venerdì calendario

IL VANGELO SECONDO MATTEO E FABRIZIO

Tanto era scritto che alla fine sarebbero stati loro due, speculari, agli antipodi, rivoluzionari, ciascuno a modo suo. Non sono (ancora) né rivali, né alleati e forse non lo saranno, ma dalla catastrofe democratica, dalle lotte fratricide all’interno della casa comune e dall’incapacità di tradurre i sondaggi in governo, Fabrizio Barca e Matteo Renzi sono riusciti a scappare, a uscire fuori dagli schemi e dagli schermi dell’ortodossia del partito. E anche se molti ex compagni o neo-compagni arricciano il naso e storcono la bocca, tra fumi velenosi, macumbe politiche e spallate "amiche" che fanno tanto male (tutte all’indirizzo di Renzi) sono loro e nessun altro - almeno per il momento - a rappresentare le due anime forti, i filoni culturali, i possibili teoremi del futuro del Partito democratico. E forse, ancora di più, del futuro della sinistra italiana.
L’uno, 58 anni, ministro della Coesione territoriale - molto applaudito e lodato - del governo Monti, dichiaratamente «comunista» ha appena presentato il suo manifesto, "Un partito nuovo per un buon governo", in cui indica tra le tante vie la vitale rivoluzione del rapporto tra cittadini e Stato e il taglio del cordone ombelicale della "fratellanza siamese" tra Stato e i partiti Stato-centrici. Cinquantacinque pagine di esposizione appassionata e vibrante, più Thomas Hobbes che Karl Marx, originale e anche orgogliosa della sapienza riversata, da leggere - se non si è del ramo - con la Treccani a portata di mano, per stare proprio tranquilli.
L’altro, sindaco di Firenze di 38 anni, in cima ai sondaggi, a volte tacciato dai nemici persino di strisciante berlusconismo, ha presentato quest’inverno il suo programma. Titolo rumoroso: "Big Bang"; svolgimento parsimonioso: cento punti da una riga ciascuno. È il filosofo della rottamazione, forma primordiale di grillismo e tesi da officina meccanica che l’ha portato sulla cresta dell’onda, assassina per i padri fondatori del Pd, e forse chissà, suicida per lui, già abbracciata a 17 anni nei primi passi di militanza dc e decisamente invisa a Barca che la considera «un atto di non responsabilità, un cambiamento che avviene per sostituzione, non per merito». Il peggiore dei demoni per il teorico della competenza, un cursus honorum fra la Banca d’Italia, la direzione di un dipartimento del ministero dell’Economia, la presidenza di un comitato Ocse: «Senza mutare le regole», ha precisato,«la rottamazione diventa gattopardismo».
Ora, a dire il vero, il sindaco - debutto da segretario provinciale Pd in Toscana per poi diventare presidente della Provincia di Firenze, lingua a dir poco affilata, temperamento positivo, non colpevolizzante, non punitivo - ha da poco virato. Ha sostituito il fatale slogan distruttivo con la parola "lavoro" («sarà meno sexy di "rottamazione"), ma incrocia la vita degli italiani». E si è concentrato su obiettivi più costruttivi: la presentazione di uno studio sul tema cruciale dell’occupazione, una nuova legge elettorale, un Parlamento meno costoso, un finanziamento dei partiti diverso e più trasparente, il risparmio dell’abolizione delle province. L’inno a «un’Italia leggera, non a un partito pesante».
Non proprio in sintonia con il pensiero sostitutivo e più austero di Barca che propone ben altro. Un partito di metodo, di sostanza e anche di recupero: gli unici nomi citati nel manifesto sono quelli di Enrico Berlinguer e di Raffaele Mattioli, primo banchiere di sistema. A volte i modelli di Renzi sono più complessi, nel senso di complessi musicali. Alcune biografie raccontano la reazione scandalizzata di Romano Prodi (con il quale c’è un flirt assai sfacciato) quando Renzi nel 2006 diede alle stampe "Tra De Gasperi e gli U2". «Mò, che c’entrano mai?», gli chiese allibito. E l’autore saccente: «Per un giovane è più formativo un testo di Bono che un saggio di De Gasperi». Pare che sulla replica del Professore fosse meglio glissare. Un mese fa, invece, il sindaco toscano ha rispolverato Barack Obama:«Si vince con la speranza non con il programma», ha enunciato per una volta visionario. Per fortuna è successo ben prima dell’elaborazione politica di Barca. Se no chissà che supposizioni maligne.
Tra i due, differenze siderali. L’uno rimette al centro il partito, vuole la coesione e deplora la dittatura del pro e del contro. L’altro è stregato invece dal bipolarismo; il rito è per l’efficientismo del sindaco d’Italia; la necessità, quasi da tossico, di avere un nemico. Il ministro, ex Fgci per pochi mesi ma da poco più di una settimana tesserato Pd (perché solo ora?)a cui ha dato uno dei suoi due voti alle ultime elezioni, l’altro a Sel, studia il ritorno a una sinistra pura. Il sindaco, al contrario, è il prodotto contaminato: una creatura del trattino che unisce il centro con la sinistra. Ma tutti e due seguono le orme dei padri. Per Fabrizio, quelle di Luciano Barca, partigiano, parlamentarte Pci, ex direttore dell’"Unità" e di "Rinascita", come moglie Gloria Campos Venuti, un fisico nucleare, per quell’epoca vissuta come una specie di astronauta. È una famiglia dell’intellighenzia rossa dove crescere insieme ai piccoli Reichlin, Cossutta, Rodano con una formazione e un’apertura mentale internazionale più da figli del capitalismo: master a Cambridge e poi Mit e Stanford, e il matrimonio con Clarissa Botsford, americana liberal, una voce da bel canto.
Un altro mondo rispetto a quello di Matteo, sposato con Agnese Landini, insegnante di lettere molto carina, precaria per anni, compagna di liceo negli scout come lui, e con un papà, Tiziano, a Rignano sull’Arno prima consigliere comunale della Democrazia cristiana poi passato al Pd. Renzi si laurea a Firenze. Il master glielo consegna Mike Bongiorno, è un assegno di 48 milioni di lire per la trionfale partecipazione a "La ruota della fortuna". L’incantesimo della tv pop, forse retaggio fascinoso di un’adolescenza provinciale, ricordo di un’esterofilia da telefilm americano - ma l’inglese lo parla bene - o intuito di politico che vuole allargare, fa rottamare a Renzi anche i dogmi delle apparizioni da talk show, frequentati ultimamente con più assiduità da Barca. Tanto da apparire ad "Amici" di Maria De Filippi, con un giovanilistico giubbotto di cuoio nero. Barca è un uomo in grigio, ma ogni tanto mostra lampi di istrionismo teatrale, la sciarpona rossa inaspettata in un economista serio che vorrebbe essere raccontato solo da numeri, dati, risultati, profondità di ragionamenti.
Quasi si sono divisi l’Italia. Il fil rouge dell’economista è il Mezzogiorno a cui ha dedicato buona parte della sua scienza.Stravede per Stefano Caldoro, governatore della Campania Pdl (provocando l’orticaria nel Pd locale), e per Nichi Vendola, presidente della Puglia e leader Sel. Renzi ha la bussola a Nord, ha avuto Giorgio Gori come spin doctor e ancora pesa su di lui la colpa della cena con esponenti della finanza milanese, organizzatore Davide Serra, numero uno del Fondo Algebris (con società alle Cayman, Bersani dixit), per non parlare del tè ad Arcore con un Berlusconi ancora premier. Appena è libero, Barca scala montagne, vicino a Roma il monte Viglio, il silenzio, la salita, la sensazione di arrivare più vicino all’infinito. Renzi ha la fede viola, evviva il calcio, il chiasso del tifo, l’oppio del popolo italiano, il correre in mutande per gridare al mondo «Goal!».
Tra loro, forse perché così diversi, nessun reale incrocio di armi. Anche se Renzi ha raccontato che gli fece visita al ministero per chiedergli quattrini per Firenze e non andò proprio bene: «Non me li diede e mi trattò come un ragazzino». Qualche giorno fa, invece, c’è stata una telefonata di Barca per annunciargli il parto del suo manifesto. Nonostante tutto, malgrado il loro Dna, qualcosa li lega. Entrambi hanno una sana dose di narcisismo, quello di Renzi più ruspante, quello di Barca più consapevole di un intelletto e di una cultura superiore. Sono dotati di senso dell’umorismo, vanno pazzi per Twitter e piacciono entrambi a Berlusconi: il suo governo rinominò Barca all’Economia e a Renzi arrivò persino l’endorsement della figlia Barbara. Non Non c’è dubbio che Barca sembri una riserva del Pd, un nome da spendere per fare bella figura. Successe per il Campidoglio (lui non smentì, spiegò, per tenere alto il livello delle candidature) e in uno dei drammatici pomeriggi post voto e sine premier il suo fantasma aleggiò tra gli ori del Quirinale. Entrambi appartengono a una Casta, anche il rottamatore che la vuole rottamare. Quella di Barca è ad alto lignaggio di pensiero, mandarini che hanno servito il paese. Quella di Renzi è più locale, legata al territorio. All’economista interessa il partito, ma un partito ben diverso dalla rappresentazione contemporanea, privo di commistioni e ambiguità, persino senza le mani in pasta nei ricchi consigli degli enti pubblici, vade retro la Rai. Per Renzi, talentuosa macchina acchiappa consenso, l’obiettivo è la leadership governativa, il cambiamento e il ricambio della stanza dei bottoni. Rispetto al Pd di oggi, Barca è a lato, pronto a restaurarlo, Renzi è contro, pur ribadendo il suo sangue rosso e che la sua casa è quella. Nessuno dei due è veramente dentro e tutti e due non possono non fare paura.