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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

HITLER, TITO E STALIN A VIENNA IN UN QUARTIERE SI FECE LA STORIA

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — Lev Trotskij capì subito che quell’uomo dal falso nome greco, esule come lui, non ispirava nulla di buono. Adolf Hitler, respinto due volte dall’Accademia delle belle arti, già covava rabbia da frustrato contro il mondo, e contro quella mescolanza di etnie che lo circondava. Josip Broz, il futuro maresciallo Tito, si guadagnava il pane in una fabbrica Daimler, e le belle ragazze erano già il suo hobby. Sigmund Freud era già un affermato medico.
Vivevano tutti non lontano dai castelli dell’anziano, triste imperatore reso vedovo da un anarchico
italiano, e dell’arciduca, di fatto numero due dell’Impero. Non è fantapolitica, è un dettaglio della storia contemporanea, ben narrato ieri in un reportage della
Bbc: era il 1913, coabitarono a poca distanza a Vienna tutti quei personaggi, che sarebbero stati poi protagonisti di conquiste, svolte e soprattutto tragedie del ventesimo secolo. La capitale del multietnico Impero austroungarico al tramonto era rifugio prediletto per talenti e rivoluzionari esuli, intellettuali di punta e giovani falliti ma ambiziosi.
Se visitate Vienna, provate a immaginare quei tempi, magari dopo aver appreso dalle pagine di Musil e Zweig un po’ di quell’atmosfera. Stalin vi arrivò nel giugno 1913, scampando all’Okhrana (la polizia segreta zarista) con un treno da Cracovia austroungarica a Vienna. Stavros Papadopoulos era scritto sul suo passaporto. «Baffuto, pelle grigiastra, non ha nulla di amichevole», scrisse poi di lui Trotskij che si occupò del fuggiasco georgiano, al secolo Josif Vissarionovic Zhugashvili. Entrambi abitarono nella parte ovest della capitale imperiale, la più affollata di stranieri. Massimo un paio di chilometri dal centro, dalla Hofburg dove Francesco Giuseppe regnava stanco e dal Belvedere dove Francesco Ferdinando non temeva ancora di cadere nell’attentato a Sarajevo. Vissero tutti nel melting pot dove Alma Mahler, vedova di Gustav, divenne la musa di Oskar Kokoschka e Walter Gropius.
Ignorando ognuno il suo futuro e quello dell’altro, erano solo semplici parti di quel tutto viennese che non c’è più. Magari s’incontrarono senza ovviamente pensare a come il futuro li avrebbe divisi. Frequentavano tutti i
mitici caffè del centro, luogo di incontri e dialogo senza sosta su cultura, politica o Weltanschauung del mondo. Freud che nella Berggasse aprì il primo studio di psicanalisi al mondo, prediligeva il Café Landtmann, Trockij e Hitler amavano il Café Central. E in quell’operaio croato, Josip Broz, nessuno avrebbe immaginato allora il mitico Tito, il leader jugoslavo che poi sconfisse prima Hitler in guerra, poi “Stavros Papadopoulos” (Stalin appunto) nella guerra fredda. Oggi Vienna è la splendida capitale d’un paese piccolissimo, ma se viaggiate nelle città-melting pot di oggi, da New York a Londra, da Berlino a Hong Kong, guardatevi attorno: chi sa che cosa c’è nel futuro del vicino.



Libia, il generale golpista
attacca il Parlamento
Scontri a Tripoli, assedio con blindati. A Bengasi i morti salgono a 79

Giordano Stabile

Cannonate contro il Parlamento di Tripoli, accusato di proteggere gli islamisti, e attacco a oltranza a Bengasi, in mano alle brigate di Ansar al Sharia, la branca libica di Al Qaeda. L’offensiva del generale Khalifa Haftar per riportare «l’ordine» in Libia è al punto decisivo. Il generale, che rifiuta l’etichetta di «golpista» in quanto a suo dire «patriota», ha attaccato l’unica sede democratica, il Congresso, quando erano passati pochi minuti dalla formazione del nuovo governo, guidato da Ahmed Mitig, che ha preso il posto di Abdullah al Thani, che a sua volta aveva sostituito Ali Zaidan, cacciato perché troppo morbido con i secessionisti-islamisti dell’Est.
Ma evidentemente nessun governo uscito dall’assemblea è mai abbastanza duro con la Bengasi ribelle, in piena accelerazione centrifuga, anche perché il gruppo che ha la maggioranza relativa al Congresso è legato ai Fratelli musulmani ed è contrario all’uso della forza. Il presidente dell’assemblea Nuri Abu Sahmein ha condannato sabato l’offensiva del generale Haftar contro Bengasi, e minacciato di arrestare «tutti i responsabili di questo colpo di Stato».
La battaglia fra le fazioni «laiche» e quelle islamiste si è spostata dunque nel cuore del potere libico, a Tripoli, mentre a Bengasi si continuava a combattere e il bilancio dei morti saliva a 79. Una battaglia condotta con serrati raid di elicotteri d’assalto. Il Parlamento, prima di essere circondato dai blindati, aveva risposto con l’imposizione, non si sa con quali mezzi, di una «no fly zone» sopra la capitale della Cirenaica, da dove nel 2011 era partita la rivoluzione che ha portato alla caduta di Gheddafi.
Nella primavera di tre anni fa i ribelli invocavano la «no fly zone» per fermare i Mig del colonnello. A imporla dal cielo furono Francia e Stati Uniti, che salvarono città e rivoluzione. A terra fra le centinaia di gruppi armati, c’era anche quello di Haftar. Un militare buono per tutte le stagioni. Al fianco di Gheddafi nel 1969 nella destituzione del re Idris, poi alla testa delle truppe inviate in Ciad dal raiss, dove viene catturato dai governativi e passa dalla parte dell’Occidente, in seguito esule in America per vent’anni, in Virginia, e infine nel 2011 al servizio della rivoluzione. Ora, probabilmente, al servizio soltanto di se stesso.
Ma nella Libia che scivolava verso l’anarchia ribaltare le fortune è affare anche degli protagonisti più improbabili, basta un colpo deciso al traballante edificio statale. Con gli ex militari fedeli ad Haftar si è schierato la potente brigata di Zintan, vera padrona della capitale. I deputati sono fuggiti, il nuovo governo non ha ricevuto l’investitura. L’anarchia adesso è certificata. E le trecento brigate censite dal profetico rapporto Cesi sugli «Sviluppi dell’instabilità in Libia» si preparano a spartirsi quel che resta dello Stato e dei pozzi di petrolio.