Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 18 Giovedì calendario

L’UOMO DEI POLLI CHE MISE PACE TRA DE BENEDETTI E IL CAVALIERE

Il terzo veneto notevole entrato nella mia vita fu un allevatore di pulcini, Antonio Grigolini, che a un certo punto della sua avventura imprenditoriale diventò editore e riuscì nella sbalorditiva impresa di mettere d’accordo Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti.
Il Commendatore - tutti lo chiamavano così, dopo che il capo dello Stato l’aveva insignito della decorazione di terza classe dell’Ordine al merito della Repubblica - nel 1983 mi assunse all’Arena, il quotidiano di Verona, dove avevo già lavorato nel 1975. In precedenza ero stato fra i suoi giornalisti anche a Radio Adige, una delle prime emittenti commerciali d’Italia, che Grigolini aveva messo in piedi senza risparmio di mezzi: sede nella centralissima piazza Bra; avveniristiche attrezzature da broadcasting acquistate negli Stati Uniti; registratori professionali Nagra all’epoca in uso soltanto ai giornalisti della Rai. (...) Nel 1951, insieme con l’amico Arrigo Armellini, era andato nei Paesi Bassi a imparare come gli olandesi avevano industrializzato il ciclo uovo-pulcino-gallina. A suggerirglielo fu don Giovanni Calabria, padre spirituale di entrambi, un matto di Dio, un matto vero, che in quello stesso anno finì nella fossa dei serpenti e venne sottoposto dal professor Cherubino Trabucchi, direttore del manicomio cittadino di San Giacomo, a quattro sedute di elettroshock, perché non s’erano accorti che nella testa aveva una pazzia che gli psichiatri non possono curare: la santità. C’è voluto un Papa venuto da molto lontano, dalla Polonia, per riconoscerla.
Tornò dunque Grigolini dall’Olanda con i pulcini e nacque la Agripol, acronimo, in ordine strettamente alfabetico, di “Armellini Grigolini polli”. Assunse i sessatori cinesi che con destrezza, soffiando su quei batuffoli di piume, riuscivano a distinguere i maschi dalle femmine, 1.200 esemplari l’ora, senza sbagliare un colpo. Nel 1960, sempre col socio Armellini, fondò a Sommacampagna il Pollo Arena, che arrivò a gestire l’intera filiera dall’allevatore al consumatore. Alle carni avicole si aggiunsero ben presto i surgelati e i piatti pronti. I dipendenti erano diventati più di 2.000. I prodotti contrassegnati dalla grande “A” rossa si vendevano in tutta Italia. All’ora di pranzo e di cena comparivano, oltre che sulle tavole, anche in televisione.
Gli spot su Canale 5 («Pollo Arena, tutta la bontà del pollo») propiziarono una solida amicizia fra Berlusconi e Grigolini. (...) I successi imprenditoriali del Commendatore non potevano sfuggire al ras del Veneto, il ministro Antonio Bisaglia. Cosicché, non appena i Galtarossa (fonderie), i Fedrigoni (cartiere), i Farina (macchine agricole) e i Bertani (vini) - la vecchia guardia liberale che dal dopoguerra deteneva il pacchetto azionario dell’Athesis - manifestarono l’intenzione di sbarazzarsi dell’Arena e del Giornale di Vicenza, il leader doroteo si diede molto da fare affinché la casa editrice passasse, col concorso delle associazioni industriali delle due città, a una cordata formata da Grigolini e Armellini, affiancati da Luigi Ferro, poliedrico uomo d’affari e collezionista d’arte i cui interessi spaziavano dai fertilizzanti agli alberghi. Era il 1979. (...)
Un editore frequenta di norma gli altri editori. Fu così che Grigolini conobbe, dopo Berlusconi, anche Carlo De Benedetti e Carlo Caracciolo di Castagneto, per lui semplicemente El Principe, proprietari della Repubblica e dell’Espresso, vale a dire quanto di più lontano dalle sue idee politiche. Ciò non gli impedì di proporsi come mediatore allo scoppio della cosiddetta guerra di Segrate fra la Cir (Compagnie industriali riunite) di De Benedetti e la Fininvest di Berlusconi per il controllo della Arnoldo Mondadori Editore. Con la bonomia tipica dei veneti, convinse i contendenti a incontrarsi nella sua tenuta di Buttapietra, alle porte di Verona, presente Caracciolo. La leggenda narra che il futuro presidente del Consiglio, non ancora provvisto dell’elicottero recante il marchio del Biscione sulla coda, avesse raggiunto via Casette con un camper che gli serviva da ufficio mobile, più simile a un Tir che a un autocaravan, e che, rimasto incastrato all’imbocco della stradicciola, fosse stato costretto a proseguire a piedi fino alla magione di campagna.
Ho avuto modo di vedere le dediche encomiastiche lasciate dal Cavaliere, dall’Ingegnere e dal Principe sul libro degli ospiti, accanto alle foto di quel meeting agreste all’inizio del quale il Commendatore aveva schierato con orgoglio l’intera famiglia. Siccome mi sono impegnato al riserbo, non posso riferirne. Dico solo che se i litiganti avessero poi tenuto fede ai buoni propositi sottoscritti attorno alla mensa di Grigolini, mai sarebbe stato necessario il lodo Mondadori e l’Italia si sarebbe risparmiata le penose vicende giudiziarie che ne seguirono, tuttora ben lungi dalla conclusione. Un’antivigilia di Natale, nel tinello della casa di città, il Commendatore ci tenne a mostrarmi il premio che Berlusconi gli riservava ogni anno per quella mediazione: un panettone da 30 chili.
Caracciolo, in segno di riconoscenza, cooptò Grigolini nel consiglio d’amministrazione del gruppo editoriale L’Espresso e ce lo tenne, con inusitata eleganza, per molti anni, anche dopo che l’amico era uscito dal mondo dell’editoria. (...) Il Commendatore s’integrò nel board del più laicista dei gruppi editoriali italiani nell’unico modo di cui era capace: da buon cattolico. Fra le sue prime iniziative, perciò, vi fu un duro rimprovero al direttore dell’Espresso, Claudio Rinaldi, per le copertine scollacciate con cui cercava di spingere le vendite. L’anziano veronese non riusciva a spiegarsi quell’ossessiva ripetitività. Alla fine mi confidò d’essere arrivato a una conclusione che equivaleva a un’assoluzione: «Poaréto, magari el fa cussì par via de la malatia». S’era cioè convinto che l’eccessivo interesse per le modelle discinte potesse essere la conseguenza compensatoria di una disfunzione erettile provocata dalla sclerosi multipla, patologia di cui il direttore soffriva da anni. E mi mostrò soddisfatto un bigliettino con l’intestazione “Claudio Rinaldi Tufi”, in cui l’erotomane gli rinnovava la sua stima e lo pregava di continuare a volergli bene: il Commendatore lo aveva interpretato come un segno di ravvedimento.
Con simili doti di diplomazia la carriera di Grigolini nell’editoria non poteva durare a lungo. Sul finire degli anni Ottanta si ruppe il suo sodalizio con Armellini. (...) Si ritirò a vita privata, senza recriminare, soprattutto senza odiare nessuno. Aveva fatto propria la preghiera che il suo padre spirituale, quello che gli aveva dato l’idea dei pulcini, recitava ogni sera nell’atto di benedire la città dalla finestra della sua cameretta, un balcone affacciato su Verona: «Ti ringrazio, o Dio, per quello che mi hai dato, per quello che non mi hai dato, per quello che mi hai tolto». Cercò di rendere ogni giorno sempre più leggero il suo zaino, consapevole che per salire la montagna del Signore non bastano mani innocenti e cuore puro: bisogna anche sapersi disfare di tanta zavorra terrena. (...)
Da uomo profondamente legato ai cicli della natura, offriva un’interpretazione di francescana stringatezza degli eventi avversi che lo avevano espulso dal Gotha locale e nazionale: «Caro Stefano, lù el crede che andando avanti co’ i ani i grópi i se desgrópa. Invésse i se ingrópa sempre de più». Nessun altro ha saputo mettermi in guardia con parole più acconce circa il futuro. Quant’è vero! Viviamo tutti con questa perenne illusione che i nodi non vengano mai al pettine, anzi che il tempo riesca a scioglierli, e invece il loro intrico soffocante ci avviluppa sempre di più. Talché possiamo ben concludere che i giorni in cui ci siamo sentiti più avviliti, incompresi, deboli, sfortunati, ebbene quelli erano i giorni più felici che Dio aveva preparato per noi.