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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

GLI ULTIMI SOGNI DI MENNEA “ALLA FINE VOLEVA UN FIGLIO”


La casa sull’Aventino è silenziosa. E la stanza di Pietro è ancora piena di fogli, di libri, di appunti. Saggi di storia, di giurisprudenza. Segnava e riportava a mano le frasi che gli piacevano: «Nessun gioco riscalderà più di quello di Olimpia. Pindaro». Stava scrivendo un altro libro: «L’America nera sportiva. Il lungo cammino di una nazione». Gli armadi sono pieni di scarpe sportive ancore nuove. Al muro una lettera di congratulazioni inviata a nome di re Umberto dal Portogallo. In bacheca il pettorale di Città del Messico, quello del record, la medaglia d’oro Pietro la regalò al presidente Pertini, da cui andò a colazione al Quirinale il giorno prima del suo addio. A terra il pallone con la dedica di Mourinho, i due si stimavano. E la magnum di Primitivo di Manduria, riserva «Pietro». Peccato che Mennea fosse astemio.
Manuela, la moglie che lo ha curato e assistito a casa, scherza: «Sembra che in questa casa, che appartiene alla mia famiglia, io non esista. Teneva tutto, non buttava niente, e non voleva che io gli spostassi cartoni o fogli». Pietro non c’è più, morto un mesa fa di tumore. Ma morto vivo, pieno di progetti, con traguardi in testa. «Al dottore che gli diagnosticò la malattia, replicò: “ma io ho ancora tante cose da fare”. Lo incoraggiavo: lotteremo e ce la faremo anche stavolta. Agli inviti degli amici, all’oscuro del suo stato, rispondeva: “appena posso”. Pietro era timido, aveva pudori, non avvisò nemmeno della nostra festa di matrimonio, dopo cinque anni di fidanzamento. Lui ne aveva 44, io 30. I miei all’inizio erano un po’ scettici: per la differenza di età e di esperienza, poi l’hanno accolto come un altro figlio e anche lui si trovava bene. I primi sei mesi di convivenza sono stati difficili, Pietro viveva come se io non ci fossi, con i suoi ritmi. Io lo smontavo, prendevo in giro la sua rigidità, e lui non ci era abituato. Però era incuriosito. All’inizio non abbiamo pensato ad un figlio, eravamo sempre pieni di appuntamenti. Poi ci sono stati i cinque anni a Bruxelles, dove lui era europarlamentare, molto coscienzioso, tanto che lì comprò una casa. Ma ora Pietro ne voleva uno, pensava sempre di più a un bimbo, con la malattia in corso, aveva pensato di congelare il seme. Speravamo di avere più tempo, invece tutto è andato così in fretta. Mi ha fatto promettere che avrei pensato alla fondazione: se io non ce la faccio...».
Ora arrivano i riconoscimenti, le lettere, i documentari, forse un film. Il nome sul nuovo Frecciarossa che andrà a 400 km orari, le iniziali PM sulla divisa che la nazionale azzurra di atletica indosserà ai mondiali di Mosca, il nome al Golden Gala, a stadi e piste. Dice Manuela che Pietro c’era anche prima. «Aveva trovato il suo spazio, fondato la onlus, ma era dispiaciuto che le sue competenze non venissero utilizzate. Non voleva fare il testimonial, lucrare sullo sport, essere un piazzista di questo o quello, al contrario gli facevano pena tutti gli ex campioni che non avevano saputo riciclarsi nella vita. Li aiutava, ma lui non avrebbe mai preteso. Gli avevano offerto un reality, era scandalizzato: sai che mi darebbero tre volte di più di quello che ho guadagnato in carriera? Non era un uomo gestibile, a Bruxelles si era scritto una relazione tutta da solo, mentre gli altri lasciavano fare ai funzionari. E aveva mandato al premier Monti una relazione sui costi della candidatura olimpica 2020 di Roma e l’aveva sconsigliata: faremo la fine della Grecia. Troppi interessi privati con soldi pubblici. Monti lo ringraziò. A Pietro per lo sport piaceva il sistema americano e anche quello inglese. Non voleva monumenti, ma rispetto per il suo sapere, costruito con sacrifici e testardaggine. E voleva fosse la nostra onlus a gestire il suo museo, per cui sto ancora cercando una casa. Tutti ancora mi chiamano per sapere di Pietro e io mi strazio a raccontare la sua fine. Ogni volta troppo dolore. Ha sofferto per l’arroganza di un sistema medico che non ascolta, all’ospedale continuava a dire: siamo persone, non potete trattarci come numeri».
C’è la lettera di Carlo Simionato, ex sprinter e staffettista. «Una parte di me si è staccata dal mio cuore, non credevo che la mia appartenenza a Pietro fosse così forte ». C’è che Pietro Paolo Mennea di Barletta era cambiato, Manuela era riuscito a scioglierlo e sbrinarlo. «Non aveva più paura a mostrare le sue fragilità e le sue dolcezze verso i bambini. Aveva recuperato un po’ di leggerezza. Forse era stato troppo responsabilizzato di doveri verso la famiglia, lui dava, sembrava dovuto. E questo lo rabbuiava. Era dispiaciuto di non avere più confidenza con l’allenatore Carlo Vittori, continuavano a darsi del lei. Ripeteva che ognuno aveva trovato nell’altro un forte e unico compagno di viaggio, ma avrebbe voluto lasciarsi più andare. Io e lui viaggiavamo e lavoravamo insieme. In autostrada guidava lui, anzi correva, in città io. La cucina toccava a me: andava matto per i frutti di mare crudi e per i moscardini fritti. A letto ronfava come un ghiro, tanto che l’unica curiosità della professoressa Rita Levi Montalcini quando l’andammo a trovare per un convegno sull’Alzheimer fu: lei dorme di notte?». Sì e correva di giorno.