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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

Fellini racconta via Veneto

Via Veneto non esiste. È uno strano modo di cominciare un articolo su via Veneto, ma sono tanti anni che non faccio più il giornalista e posso anche permettermi di ignorare le regole del mestiere. Perciò lo dico subito: io da via Veneto non ci passo mai. Insomma, quasi mai. Tanto poco da non potermi assolutamente considerare un frequentatore di questa strada famosa in tutto il mondo.
So benissimo che il mio nome, dopo La dolce vita, è stato insistentemente legato a via Veneto, alla vita più o meno mondana che vi si svolge di notte, alle compagnie di belle donne e uomini brillanti che fanno venire le ore piccole ai tavolini dei suoi caffè. Durante l’angosciosa ricerca di un produttore, mentre preparavo il film e prima del fortunato incontro con Angelo Rizzoli, ne trovai uno che a tutti i costi voleva come titolo Vìa Veneto. E ancora oggi molti giornalisti stranieri, soprattutto americani, mi telefonano supplicando di introdurli ai riti intellettuali ed erotici che avrebbero in via Veneto il loro punto di partenza e di arrivo. I più, disposti a spendere quello che è giusto, mi garantiscono la discrezione e insistono perché porti con me Anita Ekberg. Quando rispondo che non posso far niente, che non conosco le parole d’ordine per penetrare nel mondo delle Roman Holidays, nessuno mi crede. Mi crederebbero ancora meno se confessassi la verità: e cioè che nel mio film io ho inventato una via Veneto inesistente, dilatandola e deformandola con la libertà della fantasia nelle dimensioni di un grande affresco allegorico. Il fatto è che via Veneto, come contraccolpo a La dolce vita, si è trasformata, ha fatto uno sforzo violento per adeguarsi all’immagine che io ne avevo dato nel film. I fotografi si sono moltiplicati a tutti gli angoli, i cazzottaggi sono passati all’ordine del giorno, le stelline in cerca di pubblicità hanno cominciato a circolare in camicia da notte o a entrare nei caffè a cavallo.
Il film era già arrivato alle visioni di periferia e io aprivo ancora i giornali, al mattino, con un certo batticuore, quasi un assurdo rimorso. Mi chiedevo: chissà che cos’ha combinato ieri sera via Veneto per accontentare i nostalgici della Dolce vita? Da allora devo ammettere che in questa strada mi trovo un po’ a disagio. Ma in realtà è un disagio antico e per ritrovarne l’origine devo risalire ai primi anni del mio trasferimento a Roma, anni di fame e di scorribande vitellonesche alla vigilia della guerra. La mia Roma, a quel tempo, era la piccola casbah delle camere ammobiliate intorno alla stazione centrale: vivevo confuso in una folla di emigrati spauriti, di prostitute, di bidonisti, di cinesi che vendevano cravatte. La vicinanza della stazione dava l’illusione dell’aria di casa, mi faceva sentire meno lontano da Rimini: se dovesse andar male, ripeteva una voce dentro di me, il treno è là. Ero lungo, magro, con le scarpe di tela bianca, e giravo per squallide pizzerie, per ristorantini appiattiti dal neon, preoccupato di non far vedere i buchi nei pantaloni.
Figuriamoci che cosa diventava, da quell’angolo visuale, l’aerea strada che si alza bruscamente da piazza Barberini fino alle cupole da moschea dell’Excelsior e, più avanti, agli archi di Porta Pinciana, aperti sul verde. Ai miei occhi di provinciale spaurito quella non era neppure Roma: era una visione fiabesca, Montecarlo, Bagdad. Nella sceneggiatura de La strada c’era una sequenza che poi non ho girato e che esprimeva questo rapporto personalissimo con via Veneto. Arrivando dal Pincio la motocicletta di Zampanò scendeva fra sibili e scoppi nella notte la discesa di via Veneto; dall’interno, attraverso il telone semiaperto e svolazzante, Gelsomina osservava con gli occhi tondi le luci, le insegne luminose, le palme, i caffè. Poi si riaddormentava per svegliarsi la mattina in un prataccio, con il cupolone lontano sullo sfondo, nella Roma degli zingari. Anche ne Le notti di Cabiria c’è una scena che testimonia il mio complesso d’inferiorità nei confronti di via Veneto: ed è quando Giulietta tenta di rivaleggiare con le donne favolose che battono il marciapiede davanti al night club dove troverà Amedeo Nazzari.
Ricordo che una volta sola, nei primi tempi del mio soggiorno romano, misi il naso in un caffè presso Porta Pinciana. C’era un ingresso con un carillon e dentro un gran silenzio, gente che parlava sottovoce, la moquette per terra: mi parve di entrare in un acquario. Avvertii un’atmosfera riposante, sonnolenta: e pensai che mi sarebbe piaciuto restare un po’ in quel caffè, magari a leggere un libro o a scrivere uno degli articoli che cercavo di piazzare nei giornali. Ma i camerieri mi guardarono male, era come fosse entrato Charlot: così girai sui tacchi e me la filai sull’onda sonora del carillon prima di venir cacciato clamorosamente. Nello stesso periodo cominciai a riconoscere, da lontano, le fisionomie di Ennio Flaiano, Ercole Patti, Mario Pannunzio, Leo Longanesi. Li vedevo passeggiare su e giù, discutendo animatamente, davanti a Rosati e avrei dato qualcosa per sentire ciò che si dicevano, per sapere cos’era che li appassionava a quel modo. Ma a via Veneto, come ho già detto, la terra mi scottava sotto i piedi. Appena possibile rientravo nella cerchia protettrice della stazione Termini, dove avevo ormai parecchi amici. Fu uno di questi che mi guidò alla conquista di via Veneto: Rinaldo Geleng, oggi illustratore affermatissimo, allora mio socio nello sforzo titanico di mettere insieme i quattrini per una pastasciutta.
Avevamo cominciato, dapprima timidamente, a battere i ristoranti periferici per fare delle caricature ai clienti. Io schizzavo il profilo e Rinaldo metteva i colori. Un giorno decidemmo di dare l’assalto alla Roma degli arrivati, dei cinematografari, dei ricchi, e proprio all’ora di punta, fra le 12 e le 13, nel cuore dei loro fortilizi, da Rosati, da Strega. Ci trovammo alle 11 e mezzo davanti all’Excelsior, con i cartoncini grigi e la scatola di legno dei pastelli sottobraccio. Da Rosati c’erano gli sgabelli alti intorno al bar, un tocco americano che a Rimini avrebbe ancora fatto sensazione, pochi clienti, i soliti camerieri dall’aria arcigna. Andò a finire che puntammo su una famigliola, padre, madre e una bambina di otto-dieci anni, che aveva un’aria non romana, da gente di passaggio. Quando ci avvicinammo mi resi subito conto, infatti, che ci guardavano con rispetto, addirittura con soggezione. Dalle loro parti, evidentemente, non c’era l’uso di andare in giro per i caffè a fare caricature. La considerarono un’usanza della metropoli, un fenomeno insolito e curioso. «Un ritratto alla bambina?». Dissero di sì, la madre convinta, il padre meno. Cominciai a disegnare in piedi accanto al tavolo: la bambina si muoveva continuamente e per di più aveva una fisionomia inafferrabile. Un’occhiata di Rinaldo al mio primo tentativo bastò a convincermi che non c’eravamo. Stracciai il foglio, pregai la mamma di tenere fermo il suo tesoro e ricominciai. Lavorai cinque minuti, ma il risultato non parve entusiasmante. Stracciai di nuovo e mi accinsi a fare il ritratto per la terza volta. «No, no!», sentivo strillare qualche tavolo più in là. Non diceva a me: era Leo Longanesi, infervorato come sempre, che polemizzava con i suoi ammiratori. Un paio di volte i nostri sguardi si incrociarono, nel suo mi parve di leggere una certa perplessità. E la sua vocetta di testa ripeteva: «No, no!».
Niente da fare. Confessai il mio fallimento. Rinaldo si offrì di sostituirmi, ma il padre fu irremovibile. Gli scappò qualche parola un po’ dura, che la madre subito attenuò. Avevano capito che non ero un disegnatore e la cosa, in un certo senso, li aveva tranquillizzati. Andò a finire che ci invitarono a sedere e ci offrirono la cioccolata con le paste. Ne mangiammo a sazietà, gettando la maschera: l’incontro si concluse in un’atmosfera stranamente familiare, provinciale. Fu come se avessimo ricevuto dei parenti. La sera li accompagnammo alla stazione e ci lasciammo con grandi saluti e promesse di scrivere.
Ogni volta che rievoco qualche episodio della mia bohème provo una strana sensazione d’imbarazzo. Forse ne ho parlato troppo, forse ho una cattiva reputazione: il fatto è che nessuno mi crede. È andata in giro negli ultimi anni una leggenda che mi dipinge come un mentitore inveterato, un contafavole, un mistificatore. Uno studioso di cinema, che sta scrivendo un saggio critico e biografico su di me, ha avuto l’idea di raccogliere tutto quanto è stato pubblicato intorno alla mia vita di emigrato romagnolo nella capitale e di sottoporre a una crudele verifica ogni minimo particolare. Ha scritto a mia madre, a mio fratello, ad Aldo Fabrizi, ad Alberto Sordi, a Roberto Rossellini, a tutti coloro che mi hanno conosciuto e hanno lavorato con me; e bisogna vedere le risposte che sono arrivate.
Alla luce di queste testimonianze, che l’amico studioso mi ha messo sotto il naso con una cert’aria di rimprovero, io non sarei neppure esistito. Mio fratello Riccardo, per esempio, non può smentire la parentela, ma per il resto nega sistematicamente ogni cosa. Fabrizi rinnega la mia collaborazione come scrittore al seguito della sua compagnia di avanspettacolo, eppure a me sembra proprio di esserci stato. Un compagno di scuola afferma che io non dovevo girare I vitelloni perché non li ho conosciuti, sono andato via da Rimini che avevo 17 anni.
E questa, forse, è l’unica cosa giusta: perché è proprio così, io non sono mai stato un vitellone. Ho conosciuto solo da lontano gli eroi neghittosi dei caffè balneari e su di loro ho inventato tutto, a cominciare dal nome. Con La dolce vita e con via Veneto è stato più o meno lo stesso e continuerà a essere così finché avrò la fantasia per raccontarmi delle storie e girare dei film. Tuttavia quel primo periodo romano, sul quale avrei voluto fare Moraldo in città come seguito ideale de I vitelloni (Moraldo è il personaggio interpretato da Franco Interlenghi, ndr), fu davvero pieno di avventure e di incontri sorprendenti. Forse non sono esattamente le avventure e gli incontri che ricordo io, deformati dalla prospettiva della memoria e dai mille racconti fatti. Parlando di via Veneto, per esempio, mi viene in mente un altro episodio del mio sodalizio artistico con il pittore Geleng. Fu quando, abbandonate le caricature per mancanza di clientela, decidemmo di decorare le vetrine dei negozi, dipingendo donnine procaci e frasi pubblicitarie sul crollo dei prezzi. Con una sfacciataggine degna di miglior causa mi presentai al padrone di un negozio di scarpe nella parte bassa di via Veneto, offrendo i miei servigi come decoratore. L’ometto, un romano tarchiato dall’aria inguaribilmente scettica, mi guardò con scarso interesse ed ebbe il torto di lasciarmi fare. Davanti alla vetrina entrai per un attimo in crisi, non ero abituato a dipingere figure di grandi proporzioni: Geleng mi aveva lasciato un bozzetto e cercai di attenermi a quello. Era una figura femminile procace e vistosa, che avrebbe dovuto attirare l’attenzione dei passanti. Chiesi la scaletta e il padrone me la concesse con una smorfia. Cominciai a dipingere, mentre intorno si formava un capannello di curiosi, e ben presto ebbi la sensazione di essere fuori strada. La donnina del disegno, infatti, mi veniva con una capoccia enorme, il busto esplosivo e la parte inferiore del corpo stranamente contratta. Un ragazzino, che si era fermato con gli altri per seguire il mio lavoro, cominciò a darmi dei consigli: stringi di qua, allarga di là, guarda che così il disegno non ti viene. Sudavo freddo. Solo la commessa, una bella ragazzina con i capelli neri e lunghi, mi seguiva con simpatia, con un certo divertimento. Le chiesi uno straccio bagnato, deciso a rifare almeno una parte del disegno. Mi portò lo straccio con un bei sorriso, che per un attimo mi rinfrancò. Ma appena cominciai a passare lo straccio sul vetro dipinto si alzò dalla piccola folla un mormorio di disapprovazione. Anziché cancellare i segni della pittura a olio, l’acqua disperdeva la vernice creando una specie di enorme nuvola biancastra. Con gli occhi del proprietario ormai fissi su di me, continuai a tentar di cancellare il disegno, mentre la nuvola aumentava e copriva ormai quasi tutta la vetrina. «Ci voleva l’acquaragia», disse il ragazzino dietro alle mie spalle. Mi rivolsi al proprietario chiedendo con un filo di voce se per caso aveva dell’acquaragia. Rispose con un urlo che mi fece quasi precipitare dalla scaletta: lo vidi così infuriato che raccolsi tutta la mia roba, colori e pennelli, e mi diedi spudoratamente alla fuga, senza badare ai commenti della folla.
Ero già quasi a piazza Barberini quando mi voltai e vidi l’ometto delle scarpe che mi rincorreva. «Vieni qua!», mi gridò. E io, senza muovermi, dissi: «Che vuoi?», con un tono perfino spavaldo. «Hai visto quello che hai combinato?». Allargai le braccia. «Ma tu lo sai che mi tocca far pulire la vetrina?». Alzai le spalle. «Vorrei sapere chi ti ha chiamato!». Feci un gesto come per dire: embè? Lo strano dialogo continuava a distanza, senza che io trovassi il coraggio di avvicinarmi all’ometto. «Vieni qua!», mi disse ancora. Feci uno o due passi nella sua direzione. «E vieni, non aver paura».
Gli arrivai sotto, timoroso di prenderle. Invece lui tirò fuori cinque lire e mi disse: «Tieni, fatti il minestrone». Non mi feci vedere per un pezzo dalle parti di via Veneto, timoroso di venir riconosciuto come affrescatore di vetrine. Il Marc’Aurelio (giornale satirico fondato nel 1931, ndr), intanto, aveva accettato alcuni miei articoletti e ogni cosa si sarebbe messa a posto se non fosse intervenuta la guerra. Anche la dichiarazione di guerra è legata per me a un ricordo di via Veneto.
Avevo sentito la voce di Benito Mussolini («Popolo italiano, corri alle armi...») dalla radio della portineria del Marc’Aurelio e mi ero avviato da solo per le strade, preoccupato, rintronato. Roma era deserta: in tutta via Veneto, con le chiome degli alberi già ricche perché eravamo in giugno, non si vedeva anima viva. Un uomo in bicicletta scendeva, senza toccare i pedali, verso piazza Barberini. Alzò la mano dal manubrio per farmi un segno e gridò: «Ahò, c’è la guerra».
Passarono gli anni e passò anche il mio complesso d’inferiorità nei confronti di via Veneto. Guerra, liberazione, dopoguerra: gli intellettuali di Rosati erano sempre là, come guardiani della soglia. Solo che adesso qualcuno cominciava a salutarmi. E io stesso penetravo con nuova disinvoltura nei loro ambienti per appuntamenti con sceneggiatori e registi: Tullio Pinelli, Alberto Lattuada, Pietro Germi. Spesso stavamo a discutere, per delle ore, la psicologia di un personaggio o le varianti di una situazione affondati nelle poltrone di un caffè: e intanto fuori a poco a poco Roma cambiava, diventava l’ombelico di un mondo assetato di vivere una rinnovata età del jazz, in attesa della Terza guerra mondiale, di un miracolo, dei marziani.
Esplose il cinema, arrivarono gli americani, prosperò la Café Society, le donne diventarono meravigliose, venne la moda a sacco, le automobili assunsero l’aspetto di mostri leggendari. Una sera rimasi a lungo incantato nella contemplazione di un signore grasso con i baffi neri, che beveva acqua minerale a un tavolino del Café de Paris, godendosi il fresco del ponentino in compagnia di una specie di dea Pomona: era l’ex re d’Egitto, Faruk. Osservai il movimento dei fotografi intorno al suo tavolo e mi accorsi che gli scattavano dei lampi sempre più ravvicinati per irritarlo. Alla fine Faruk balzò in piedi infuriato, il tavolino si rovesciò, ci fu un grande accorrere di gente mentre i lampi si moltipllcavano. Passai parecchie serate con i fotoreporter di via Veneto a chiacchierare con Tazio Secchiaroli e con gli altri, a farmi rivelare i trucchi del loro mestiere. Come puntavano la preda, come giocavano a innervosirla, come preparavano i servizi su misura per i diversi giornali. Erano storie di lunghi appostamenti, di fughe rocambolesche, di inseguimenti drammatici. Una sera volli portarmi a cena tutti i fotoreporter che trovai e devo dire che, sullo slancio del bianco dei Castelli, mi raccontarono anche parecchie Trottole, finché Secchiaroli disse: «Smettetela di inventare balle, state sparando in casa di un brigante». E io lì per lì non seppi se considerarlo un complimento o un’offesa. Cominciai a imbastire delle scene, delle idee di personaggi, intorno a quella vita ormai così precisa e caratteristica.
Una sera feci salire in macchina un giovanottino biondo dagli occhi bistrati che tutti chiamavano Chierichetta, deciso a capire qualcosa della mentalità di un tipo simile. Mi disse che stava a Borgo San Pio, sotto San Pietro; era molto cattolico, amava solo la mamma e Gesù, tanto che avrebbe voluto portare i capelli alla nazzarena. Mentre giravamo senza meta dalle parti dell’Appia Antica mi fece uno sfogo, disse che voleva cambiar vita, sentiva la voce della coscienza, proprio come avere uno dentro che dice: «attento a quello che fai». Voleva mettersi con un avvocato, una persona seria, e lasciar perdere il resto, tanto più che fra pochi anni ci sarebbe stata un’Apocalisse e tutti i viziosi sarebbero stati travolti in una specie di nuovo diluvio. I suoi discorsi mi colpirono profondamente. Con Flaiano, Pinelli, Brunello Rondi verificavo le mie impressioni intorno al materiale che stavo raccogliendo, andavo avanti nella direzione vaga di un film che avrebbe dovuto rappresentare la vita di quegli anni. E così, in margine alle tiepide serate di via Veneto, nell’estate 1958, nacque La dolce vita, con tutta l’odissea che mi portò da un produttore all’altro, impegnato nella battaglia per imporre un film che definivano fallito in partenza. Quando iniziò la lavorazione, via Veneto diventò un problema. Le autorità permettono di girare in questa strada soltanto dalle due di notte alle sei del mattino. Per la scena in cui Marcello Mastroianni riaccompagna a casa Anitona, dopo il bagno nella Fontana di Trevi, non ci furono difficoltà. Ci appostammo a notte fonda e riuscimmo a “rubare” un’alba proprio bella, con Anita che batteva i denti per il freddo, Marcello preoccupato per i pugni che doveva prendere dall’atletico Lex Barker, i paparazzi che saltellavano come diavoletti intorno al set. Più complicata fu la scena in macchina fra Marcello e Anouk Aimée. Ci furono trattative interminabili con i vigili e ottenemmo il permesso di girare la scena in movimento purché non ci fermassimo mai a intralciare il traffico.
Clemente Fracassi organizzò una colonna di macchine che pareva il corteo dei re magi. Aprivo la marcia con la mia automobile, guidando mezzo voltato all’indietro per vedere quello che succedeva. Mi seguivano Marcello e Anouk sulla Cadillac scoperta. Anucchina non sa quasi guidare, ma la scena esigeva che fosse lei a portare la macchina: era pallida, tesa, con il batticuore. Accanto a lei Mastroianni, che si picca di essere un pilota provetto, soffriva indicibilmente. Li seguiva la cameracar con la macchina da presa e il codazzo delle auto della produzione, mentre ai fianchi della lunga colonna si muovevano veloci le Seicento e le motorette degli aiuti. Poiché la scena doveva venir ripresa più volte, rifacemmo il percorso girando intorno agli isolati e ricomponendo la colonna in via Ludovisi.
Sui marciapiedi si era raccolta parecchia gente a seguire i passaggi di questo trionfo strombettante e anche un po’ guitto, com’è sempre il cinema quand’è fatto in mezzo alla gente. In particolare ricordo la faccia di un curioso davanti all’Excelsior, un tipo con un baschetto, una faccia di pelle buia, da saraceno. Questo signorino aspettava con ansia ogni mio passaggio e, sapendo benissimo che non potevo fermarmi senza provocare la fine del mondo, quando mi aveva a un metro, un metro e mezzo dal suo naso, mi gridava una di quelle parole romanesche che non si possono stampare su un giornale. Accadde quattro, cinque, sei volte: il saraceno, appena arrivavo al semaforo, mi guardava sghignazzando da lontano, pregustando il piacere di insultarmi. Poi, quando gli capitavo sotto, tac, ogni volta lanciava quella parola, sempre la stessa, ma pronunciata con un crescendo di entusiasmo.
Al settimo passaggio ero esasperato, avrei fermato la macchina e sarei sceso per acciuffare quel tipo se non avessi temuto di compromettere il lavoro di una nottata. Mi limitai a rispondere per le rime, con frasi e gesti scomposti che solo la rabbia impotente di quel momento poteva giustificare. Appena finite le riprese, sciolta la colonna in via Sardegna, chiesi a un paio di macchinisti fra i più robusti di seguirmi e corsi verso l’Excelsior per sistemare i conti. Ma l’uomo della parolaccia era sparito, volatilizzato. Ancora oggi l’ho stampato in mente, con il baschetto e tutto, e non dispero di incontrarlo un giorno o l’altro. Fu lo choc di questo episodio a farmi insistere presso la produzione per ricostruire via Veneto. Dovevo girare parecchie scene ai tavolini dei caffè e non era assolutamente possibile risolverle lavorando a notte inoltrata o servendosi della macchina nascosta. Così l’architetto Piero Gherardi mi ricostruì un bei pezzo di via Veneto nel Teatro 5 di Cinecittà. Vi organizzammo anche un ricevimento, invitando molta gente dell’altra via Veneto, e l’illusione fu perfetta. Erano presenti tutte le dive del film: Anita, Anouk, Yvonne Furneaux, Luise Rainer. Solo verso la fine, come risposta alle voci catastrofiche che correvano intorno ai costi e alla durata della lavorazione, mi scappò una battuta con un giornalista: «Abbiamo deciso di dare un ricevimento come questo ogni tre mesi di lavorazione». Angelo Rizzoli mi sentì e si limitò a minacciarmi scherzosamente con la mano, da un marciapiede all’altro della nostra strada di fantasia. La via Veneto ricostruita da Gherardi era esatta fino nei più minuti particolari, ma era piana invece che in salita.
Lavorandoci dentro mi abituai tanto a quelle prospettive che la mia insofferenza per la via Veneto autentica crebbe ancora. Non posso impedirmi di sentire, quando passo davanti al Café de Paris, che la vera via Veneto era quella del Teatro 5, che le dimensioni della strada rifatta erano più esatte o comunque più simpatiche. Mi viene anche la tentazione irresistibile di esercitare sulla strada della realtà l’autorità dispotica che avevo su quella della finzione. Bisogna che ne parli a qualcuno che s’intende di psicanalisi. In tutti i casi i miei rapporti con via Veneto sono molto vaghi, di conoscenza più che di amicizia. Via Veneto è per me il semaforo che mi blocca la sera quando sto tornando a casa. Via Veneto è il giornalaio dove mi fermo, di solito dopo la mezzanotte, per comprare le ultime edizioni dei quotidiani e i settimanali. Quando c’è qualche fotografia mia, sento l’eterno ritornello dell’edicolante: «A Federi’, ma tu vieni proprio male sui giornali. E mettiti dritto quando vedi che te fanno la fotografia. Te se vede il barbarozzo, una panza che me pari Fabrizi».
Via Veneto per me era anche il barbiere, fino a qualche tempo fa: Candidi Eliseo, accanto alla libreria Rossetti. Un salone confortevole, ottocentesco, con la boiserie, gli spruzzatori, certe boccette colorate con profumi strani. I proprietari erano due vecchietti che avevano allenato al silenzio i lavoranti. Quando entravo da Candidi non c’era la solita tempesta di chiacchiere, Roma-Lazio, «Ha visto, dottò? Due a uno», «Ma la Lollo je vò bene a Milko Skofic?», eccetera. Tutto si svolgeva come in una clinica svizzera, era un’isola nel frastuono insensato della nostra esistenza. Una brutta mattina ho trovato la saracinesca chiusa e qualcuno mi ha detto che i due vecchietti si erano ritirati.
Sempre a proposito di barba e capelli, proprio a via Veneto mi è accaduto pochi mesi fa di vedere una ragazza bellissima, talmente fuori del comune che volli vedere dove andava. Non era pappagallismo, lo giuro, era la curiosità che nasce dall’apparizione di un fenomeno. La ragazza infilò decisa un portone, e io dietro. Entrò nell’ascensore, e io con lei. Mi disse: «Io vado al quarto». Benissimo. Al quarto c’era una porta con scritto “avanti”. La ragazza entrò e la seguii ancora. Mi trovai di fronte a un’altra donna piuttosto bella, in camice bianco, seduta davanti a un banchetto con i telefoni. Disse: «Un momento, un momento», e sparì. Dopo un attimo riapparve e disse: «Si accomodi». Entrai in uno stanzino semibuio, dove un giovane medico mi fece accomodare, accese una lampada a raggi infrarossi e cominciò a cercare qualcosa sulla mia testa. «Sono un tricologo», disse. Fu così che imparai una parola nuova e cominciai la cura per la rigenerazione del cuoio capelluto, massaggiato tutte le mattine da un battaglione di ragazze che sembrano ballerine di Macario, ma hanno l’ordine di non parlare con i clienti.
Sorridono soltanto. La storia del tricologo è un altro capitolo dei misteri di via Veneto.
Devo dire, nonostante le mie prevenzioni, che la strada è bellissima alle nove di mattina, con il cielo di un azzurro eccessivo, i ragazzi dei fornai che sfrecciano in bicicletta, le commesse delle grandi sartorie che passano, i camerieri che servono il caffè ai pochi clienti caduti dal letto. C’è un’aria sospesa, dolcissima, che si respira soltanto a Roma. Ed è per quest’aria che io ripeto: venire a Roma è come tornare a nascere. Per quest’aria, naturalmente, e per tante altre cose La dolce vita non è soltanto un’espressione ironica, satirica. Anzi, parlando di via Veneto, devo dire che non lo è affatto. Ne potrei negare che una certa complicità non si sia stabilita fra la strada e me negli ultimi anni. Un sentimento indefinibile, che non è intimità, che non è amore: ma viene dall’aver vissuto vicini, come una specie di consuetudine familiare, che permette di parlare per allusioni, per strizzatine d’occhio; che permette, se volete, di non darsi noia a vicenda. I posteggiatori mi salutano con una deferenza speciale, come fossi una specie di sceriffo della contrada.
La settimana scorsa un vigile nuovo, che mi aveva fatto una contravvenzione, è stato letteralmente aggredito da un sorvegliante del posteggio: «Ma che hai scherzato? Non sai che questo è il regista della Dolce vita?». Ho dovuto insistere per pagare la multa tanto ero imbarazzato. Questo sorvegliante è un personaggio curioso, appassionato di cinema, fanatico di via Veneto. Tutte le volte che mi vede chiede speranzoso: «Quand’è che facciamo un altro film a via Veneto?». Gli dico sempre: «Presto, presto». Adesso mi sento imbarazzato a dovergli confessare che nel mio prossimo film via Veneto non c’è. Io stesso so pochissimo di questo film; tutto è ancora in una fase magmatica, ho l’impressione di essere John Glenn che viene spedito nello spazio. Neppure il titolo c’è ancora, ma una sola cosa è certa: i vagabondaggi di Marcello Mastroianni non lo porteranno stavolta dalle parti di via Veneto.
Dopo La dolce vita, per me è un capitolo chiuso.