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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

CON UNA COMMEDIA SORPASSO TUTTI

Non ha nessuna voglia di togliere il disturbo, semmai pensa a un nuovo sorpasso. I quasi 50 anni di cinema alle spalle non gli pesano; forse lo turbano un poco le difficoltà di lavorare in un sistema sempre più dipendente dalle regole (leggi) televisive. Intanto, mentre butta giù soggetti e idee, Dino Risi, il regista de Il sorpasso e de I mostri, si appresta a vivere una ruggente primavera. Dall’America arrivano le notizie del successo di Scent of a Woman diretto da Martin Brest e interpretato da Al Pacino. Il film, che pare uno dei favoriti nella corsa all’Oscar, è il remake di Profumo di donna, girato appunto da Risi, con Vittorio Gassman protagonista, nel 1974. In più, in maggio, il Festival di Cannes lo festeggerà con una “personale” di 12 titoli, un onore riservato solo ai grandi del cinema. Incontro Dino Risi nel residence romano in cui abita da una decina di anni (più o meno il tempo trascorso da quando il figlio Marco debuttò come regista con Vado a vivere da solo: magari non è una coincidenza). Qualche settimana fa, Marcello Mastroianni, commentando l’Oscar alla carriera assegnato a Federico Fellini, notava con garbata amarezza che questi onori hanno sempre un non so che di malinconico.
Anche Risi prova una simile sensazione?
Direi di no. Ho 75 anni, mi pare ben portati, e se qualcuno guarda e stima il lavoro che ho fatto, mi fa piacere. I francesi, poi, sono stati i primi ad apprezzare e studiare i miei film. Qui in Italia ero considerato un registaccio da cassetta, l’infame inventore del ciclo di Poveri ma belli. Persino Il sorpasso, che oggi tutti adorano come un classico, fu trattato dai recensori con benevola sufficienza. Quindi mi pare naturale che sia proprio il Festival di Cannes a ricordarsi di me. La mostra di Venezia, con tutti i suoi astratti manifesti sul cinema d’autore, mi è sempre stata antipatica, non ci ho mai messo piede.
E con Hollywood come va? I giornali americani, recensendo Scent of a Woman, non hanno ricordato quasi mai il suo film. Anche nei titoli di coda Profumo di donna è citato piccolo piccolo.
E allora? Sarebbe come se Giovanni Arpino si fosse arrabbiato perché io ero partito dal suo romanzo, Il buio e il miele. Brest ha lavorato sul mio film per fare un’altra opera, assai diversa. Almeno da quello che ho capito dalla versione in cassetta. E in originale, e trattandosi di un copione molto parlato, non ho seguito tutto. Posso semmai notare, al margine, che Al Paci no, pur bravissimo, come cieco mi sembra meno convincente del mio Gassman. E che il finale nel college, tipo L’attimo fuggente, mi sembra un po’ fuori posto. Comunque sono problemi di Brest. Ma sono lusingato dal fatto che un autore della Hollywood di oggi abbia scelto un mio film.
E non è la prima volta. Più volte lei ha ripetuto che Easy Rider era costruito sul modello de Il sorpasso. Pensa dunque che gli americani abbiano da imparare parecchio dal cinema italiano?
Non mi faccia passare da presuntuoso, non ho mai affermato questo. Ho solo detto, e lo confermo, che Il sorpasso è un ottimo campione di cinema da strada e da viaggio. E che forse Dennis Hopper l’aveva visto prima di girare Easy Rider. Ma è chiaro che nel suo complesso il cinema americano è più forte e bello di quello europeo. Considero Billy Wilder un vertice assoluto, sia nelle commedie brillanti sia nei melodrammi, tragici ma percorsi dall’intelligenza dell’ironia, come Viale del tramonto. Ciò non toglie che grandi autori contemporanei, tipo Martin Scorsese, abbiano grandi debiti con i maestri del neorealismo, Vittorio De Sica e Roberto Rossellini in testa.
Il neorealismo punto di partenza inevitabile. Anche lei, Risi, cominciò da lì, con documentari sulla Milano del dopoguerra. Eppure spesso nelle sue interviste affiora un’insofferenza verso la presunta egemonia neorealista che l’aveva emarginato.
Il neorealismo non fu una corrente poetica unitaria, ma una tensione civile, un modo di guardare le cose: vitale e positivo nella prima fase, manieristico e ripetitivo negli anni Cinquanta. Credo che una buona fetta della cultura di sinistra, allora egemone, peccò di stalinismo, di voglia di messaggi ed eroi positivi. C’era una spaventosa diffidenza contro il comico e la commedia. In questo quadro rientra anche la scarsa considerazione verso i miei film. O, al contrario, la supervalutazione di registi a mio avviso minori.
Potrebbe farci qualche nome?
Volentieri. Mi viene in mente Giuseppe De Santis, nel primo dopoguerra stimatissimo per Caccia tragica e Riso amaro, due pessimi film. E francamente anche Luchino Visconti fu adorato oltre i suoi meriti. Mi emoziona ancora La terra trema, ma in parecchi film mi sembra soltanto un buon arredatore. Fra quelli più o meno della mia generazione, non amo affatto Michelangelo Antonioni, che mi ha sempre annoiato. Di tutta la sua filmografia salverei alcuni frammenti di Blow-Up. Mentre uno come Mario Monicelli ha avuto il mio stesso destino: un lungo disprezzo critico e apprezzamenti solo nella maturità, quando finalmente i pregiudizi contro la commedia sono caduti.
Lei se la prende da tempo contro il cinema “impegnato”. Però nelle sue commedie più famose, e anche in film meno riusciti come Il profeta, la tensione sociale, sarei tentato di dire “impegnata”, è evidente...
Non c’è contraddizione. Io ho soltanto polemizzato contro una concezione critica pigra e arcaica che privilegiava in ogni caso il drammatico rispetto al comico. Il che non esclude che nelle mie commedie abbia parlato di temi forti e sgradevoli. Anche in quelli sbagliati, come Il profeta, che partiva da un’intuizione giusta e anticipatrice (la crisi del protagonista, un rampante di successo che, a un tratto, trova il suo punto di rottura), ma poi non era sostenuto da un vero racconto. Forse, proprio come i nostri personaggi, a quei tempi anche noi (io, Gassman che saltava di film in film, i produttori) avevamo troppa fretta, e così a volte buttavamo via possibili cose buone. Comunque anche in opere successive ho anticipato temi socialmente importanti. Sono molto affezionato a Mordi e fuggi, un film del 1973, commercialmente sfortunato, in cui c’erano già il terrorismo e l’ossessione dell’informazione televisiva. E, modestamente, mi sembra che nel mio In nome del popolo italiano, girato nel 1971, si rappresenti di già l’Italia di Tangentopoli.
Quanti i soggetti nuovi nel cassetto?
Tanti, non ho ancora perso la capacità di inventare storie, grazie a Dio. Le idee non realizzate che mi stanno più a cuore sono tre. Una è sui costumi, negli anni di Napoleone a Sant’Elena, e il suo rapporto con i carcerieri. Poi, fatalmente, c’è un Il sorpasso atto II, ambientato ai giorni nostri, con corse non più in macchina ma in aeroplano fra miliardari e grandi latitanti. Infine Papé Satàn, un altro viaggio, questa volta addirittura nell’aldilà. Sono dieci anni che cerco un produttore ma non mi arrendo. In fondo ho bisogno soltanto di tre scene, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. (...)

(Nessuno di questi progetti fu mai realizzato; Dino Risi morì nel 2008, ndr).