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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

COME MARGARET THATCHER DISSE ADDIO A HONG KONG

La chiamavano «Lady di ferro», Margaret Thatcher, ma non lo è stata tanto con Deng Xiaoping, quando nel settembre 1982 si incontrarono a Pechino per decidere il destino di Hong Kong e l’inquilina di Downing Street ha dovuto cedere al segretario del partito comunista cinese la piccola colonia dominata per cento anni. Gli abitanti di Hong Kong si sono visti svendere senza ricevere la democrazia promessa durante i cento anni di colonizzazione. Ma se a Hong Kong avessero potuto votare, come è stato per Gibilterra, i cittadini di Hong Kong avrebbero scelto di essere devoti a Pechino?
Berto Binelli
bertobinelli@libero.it
Caro Binelli, vi furono molte occasione in cui la politica estera di Margaret Thatcher fu irascibile e decisa a caldo sotto la spinta di argomenti non sufficientemente pesati. Sapeva ciò che sarebbe piaciuto al suo elettorato in quel particolare momento e forse era segretamente animata dal desiderio di dare una lezione di mascolinità ai suoi ministri di sesso maschile. Penso, per esempio, alla guerra delle Falkland, ai modi con cui persuase il vecchio presidente Bush, dopo l’invasione irachena del Kuwait, a punire Saddam Hussein, al livore euroscettico con cui condusse molte delle sue battaglie nella Comunità europea. Nel caso di Hong Kong, invece, la «lady di ferro» fu riflessiva, prudente e saggia.
L’isola di Hong Kong divenne colonia britannica «in perpetuità» nel 1842, dopo la Guerra dell’oppio, e si andò progressivamente estendendo nella terraferma a mano a mano che il suo porto, i suoi magazzini e le sue case di commercio assumevano una importanza continentale. Per una ulteriore estensione il governo di Londra, nel 1898, firmò con la Cina un accordo che gli garantì un affitto enfiteutico di 99 anni su quelli che sarebbero stati chiamati, da allora, i «Nuovi Territori». Thatcher incontrò Den Xiaoping nel 1982 durante una trattativa iniziata da tempo fra i due Paesi per la restituzione di questi territori alla scadenza del contratto.
Che cosa avrebbe dovuto fare in quelle circostanze il Primo ministro britannico? L’isola e i Nuovi Territori erano ormai parti inscindibili di una stessa area economica e la Cina, grazie alle riforme di Deng, era avviata verso un brillante sviluppo. Se Londra avesse puntato i piedi e proclamato i suoi diritti sull’isola, il risultato sarebbe stato una logorante guerra diplomatica da cui i cittadini di Hong Kong sarebbero usciti forse un po’ più liberi, ma certamente più poveri. Thatcher preferì negoziare e ottenne che per cinquant’anni dopo il ritorno alla Cina l’intera zona di Hong avrebbe goduto di uno statuto speciale. L’ultimo governatore britannico, Chris Patten (futuro commissario europeo, oggi presidente della Bbc), impiegò tutto il tempo del suo mandato (1992-1997) a creare, per l’amministrazione democratica dell’isola, una serie di fatti compiuti. Oggi Hong Kong ha una Basic Law (legge fondamentale) e un capo del potere esecutivo (Chief Executive) eletto da un limitato numero di grandi elettori fra coloro, beninteso, che sono graditi a Pechino. Ma è molto più autonoma di quanto non sia qualsiasi altra provincia della Cina continentale. Tutto sommato, nella storia della politica estera di Margaret Thatcher, questo è uno dei capitoli migliori.
Sergio Romano