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 2013  aprile 18 Giovedì calendario

IL SINDACALISTA CHE RIGETTA LA DEMAGOGIA

Se Franco Marini decide di perseguire un obiettivo, provare a farlo deflettere è sforzo vano. È un sindacalista che rigetta la demagogia. «Quando sono convinto di una cosa posso anche aspettare mesi prima che si realizzi», ama infatti sussurrare con quel suo sorriso a mezza bocca da lupo marsicano che gli anni hanno potuto solo addolcire ma non piegare. Nè tantomeno cambiare. Il punto è che la capacità di mediazione è la sua caratteristica più vera, più riconosciuta. E’ su quella che puntò Giulio Pastore, leggendario fondatore della Cisl, quando a metà degli anni Cinquanta adocchiò quel ventenne dal carattere così determinato e decise di segnalarlo per l’ufficio studi del ministero per il Mezzogiorno. Trent’anni dopo, Marini sarebbe arrivato a sedersi sulla poltrona più importante del sindacato di ispirazione cattolica. E di quei decenni passati tra i lavoratori a confrontarsi con Cgil e Uil si sarebbe ricordato: «La mediazione è fondamentale. Ma per poter condurre in porto una mediazione con successo, devi avere una grande forza». E un riconoscimento bipartisan, si direbbe oggi.

COLLE, LARGHE INTESE
Adesso che può arrivare laddove nessun sindacalista è mai arrivato - e se fosse eletto oggi al primo scrutinio sarebbe un bel poker: solo De Nicola, Ciampi e Cossiga ci sono riusciti - Marini non si sente per nulla appagato. Piuttosto è consapevole della gravosità di succedere a Giorgio Napolitano, «un uomo che esprime il meglio delle socialdemocrazie europee», e di affrontare forse il passaggio più drammatico che l’Italia vive dal dopoguerra. «Diventare capo dello Stato in questo momento è un impegno difficile, da far tremare i polsi. E’ un incarico che arriva nel momento peggiore che vive il Paese. Sono lusingato che sul mio nome si possa realizzare una intesa larga tra le forze politiche. A parte Matteo Renzi, infatti, grandi dissensi non ne vedo». Nella giornata in cui i bookmakers sono impazziti e i candidati sono stati innalzati, impallinati e poi riproposti di nuovo in un gioco perverso che ha mischiato ambizioni, trattative, minacce, trionfi web allo stesso tempo roboanti ed effimeri, il marsicano doc è rimasto chiuso nel suo studio di ex presidente del Senato a palazzo Giustiniani. Parlando con pochi e scelti interlocutori. Tra cui un posto privilegiato ha avuto Gianni Letta: un amico da tanto tempo. «Lo stimo, è abruzzese come me. Se le cose hanno preso questa piega, molto è merito suo». Del resto a Letta lo unisce la capacità di smussare gli angoli, riuscire a trovare l’intesa laddove sembra impossibile. «Se le posizioni sono distanti, il compito è ancora più seducente», ama ripetere il Gran Ciambellano del Cavaliere. Parole che Marini sottoscrive una per una.

IL LAVORO, INNANZITUTTO
La mediazione, certo. Ma per avere risultati: mica fine a sé stessa. Marini la lezione l’ha imparata da giovane e non l’ha mai dimenticata. Come le buone maniere, che viaggiano assieme all’ospitalità, che è sacra. Nei momenti più tormentati, nelle trattative più tortuose, il numero uno della Cisl non ha mai rinunciato ad invitare il suo interlocutore a pranzo in quel ristorante che affaccia su piazza Ungheria dove fanno la carne alla brace, e poi percorrere sottobraccio («Così, per digerire») le poche centinaia di metri di via Lima fino ad arrivare a casa. Lì, nel soggiorno con i mobili in legno, nascosta dietro uno sportello c’è la grappa: quella buona, che scorre lisca fin dentro lo stomaco e predispone alla stretta di mano conclusiva.
La grappa e una tirata di pipa, magari quella che gli ha regalato Berlusconi: funziona così. E funziona bene. Ma il vero chiodo fisso di Marini è un altro, più importante: il lavoro, la tenuta civile e l’impegno sociale. Nei sei anni in cui ha guidato la Cisl ha messo tutto sé stesso nella ricerca delle condizioni per salvaguardarlo e difenderlo. Sta qui la ragione dell’adesione alla Sinistra sociale della Dc, quella che oltre Pastore ha avuto come leader Giovanni Gronchi (pure lui arrivato al Quirinale: solo una coincidenza?) e soprattutto in tempi recenti Carlo Donat Cattin. Così come il leader di Forze nuove era il bastian contrario per antonomasia - tanto che ad un congresso scudocrociato andò alla tribuna per dire: «Non sono un ragazzo del coro»; i delegati lo fischiarono, Fanfani gli disse di ricominciare; stessa frase, altri fischi e così avanti per dieci volte - Marini ha speso una vita per trattare, perché solo così e non con gli oltranzismi, le grida, il massimalismo e la demagogia, si possono ottenere risultati e si difendono sul serio i lavoratori. Con lo stesso spirito nel 1991 ha preso il testimone della corrente alla morte di Donat Cattin e il suo posto da ministro del Lavoro. Sempre da sindacalista, senza essere ancora parlamentare. Un passo alla volta, senza fretta, con determinazione. Prima ancora che il sindacato gliel’hanno insegnato gli alpini, con il quali ha fatto il militare di leva, grado di ufficiale. Penna nera sul cappello e nessun cedimento di memoria: per anni, ancora adesso, ad ogni raduno manda un messaggio: di più, quando può ci va di persona. E loro lo acclamano: «E’ dei nostri».

«E MO’ VEDIAMO»
Adesso lo attende la prova più impervia. «I sabotatori sono all’opera», sibila nell’ora decisiva Pier Ferdinando Casini. Il leader Udc, nonostante la comune vecchia militanza democristiana, gli negò la fiducia nel 2008, alla caduta di Prodi, premier di un governo troppo spesso costretto a ricorrere ai senatori a vita per superare i voti di fiducia. Marini aveva ricevuto un incarico esplorativo dalle mani di Giorgio Napolitano con la speranza di salvare la legislatura. Il niet di Pier Ferdinando decretò l’inabissamento della legislatura. Marini non si lamentò. Aveva guidato per due anni il Senato in quel frangente politico difficilissimo, lui matricola tra tante volpi. Quando il centrosinistra lo candidò contro Giulio Andreotti, suo ex presidente del Consiglio, più d’uno storse la bocca e Clemente Mastella, altro ex Dc, provò a fargli lo scherzetto: nell’urna metteva la scheda con su scritto ”Francesco Marini” per guadagnare tempo e, più prosaicamente, un riconoscimento politico e qualche poltrona, che non guasta mai. Pazienza, la calma è la virtù dei forti. «Ma ce la fai o no?», gli chiedevano gli amici con l’ansia a mille. «E’ mo’ vediamo», rispondeva sornione lui.
Tre parole che sono una specie di marchio di fabbrica. Le aveva dovute ripetere spessissimo alla guida del Ppi, tra i marosi del bipolarismo gladiatorio made in Italy. Con una bussola chiara: restare ancorato nel centrosinistra, senza ascoltare le sirene del Cavaliere. Quelle che il leader dell’allora Cdl aveva tante volte provato a far cantare nell’orecchio di Marini. Una volta perfino a Bruxelles, quando di fronte a Casini (ancora lui!) gli propose di fargli da vice e poi diventare delfino-successore. Non ci fu bisogno di rispondere no, grazie. Marini si limitò a sorridere voltandosi verso Pier. Che fece lo stesso. Bastò così. Lo stesso sorriso, però assai più tagliente, che rivolse al bozzetto che immortalava l’Asinello di Romano Prodi, quello della lista dei Democratici: «Non mi piace, fa tanto Disneyland». Meglio il simbolo del Partito popolare. Romano non se lo dimenticò. Chissà se è per questo che ora qualche prodiano annuncia che Marini non lo voterà mai.

IL NO DI RENZI
Quel mai lo strilla a pieni polmoni Matteo Renzi. Che il marsicano ce l’ha sul gozzo e mandarlo giù proprio non gli riesce. «Ma ve lo immaginate lui che parla con Obama», motteggia il sindaco di Firenze. Per la serie: in che lingua si può mai esprimere con il presidente degli Usa? Chissà: magari in americano, idioma che deve aver appreso da giovanissimo, quando grazie ad una borsa di studio che gli assegnò l’allora ministero deal Guerra, prese una nave e andò a studiare legge in America. Per laurearsi in giurisprudenza all’università di Harvard.