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 2013  marzo 23 Sabato calendario

EL CHICO DEL ORO

Adesso mi dedico anche alla pesca subacquea, ma la mia grande passione rimane la caccia. Amo gli animali. Tutti, tranne i gatti».
Ma, se li ama, non sarebbe meglio fotografarli, invece che prenderli a fucilate?
«Miro solo agli uccelli. Lo faccio da che ero bambino, quando li tiravo giù con la fionda. Li cacciavo insieme ai due figli del mio primo allenatore, Jose Cordoba. E li cacciavo non per divertirmi, ma per mangiare».
Attenti a giudicare Mauro Leardi dalle apparenze. Attenti a giudicarlo, oggi, soltanto dall’Hummer H2 dorato che avete visto nella pagina precedente, un pachiderma a quattro ruote da 70 mila euro e rotti («Ma l’ho comprato di seconda mano»), che lui, patentato da due mesi, nemmeno potrebbe guidare («Infatti al volante ci sta Patricia, la mia ragazza, che ha la patente da tre anni. Io lo provo solo fuori città e in strade deserte») e che restituisce l’immagine del solito calciatore tutto sfizi e lazzi.
Attenti, perché, prima del ragazzo di 20 anni baciato da improvvisa quanto meritata fortuna calcistica e di conseguenza economica, Maurito Icardi, argentino di Rosario, centravanti della Sampdoria, coi suoi 8 gol dietro solo a Messi (18) e Ronaldo (14) in questi primi mesi del 2013, è altro. E l’"altro" spesso è stato difficile da mandar giù, soprattutto all’inizio. Comprensibile, perciò, che il giovanotto ora ostenti il suo pick up come il più classico degli status symbol. Di più, come il trofeo da esibire al termine di una caccia rapida ma faticosa. Quella al successo. Prima di tornare alle cose terrene, però, per un momento si concentra su quelle dello spirito.
Come ha appreso la notizia dell’elezione a Papa di Jorge Mario Bergoglio, argentino come lei?
«Ero sul divano di casa a dormire. Erano le 7 di sera, lo so, ma a me piace dormire. Mi ha svegliato Patricia per darmi la notizia, ma lì per lì non ho realizzato. Dopo, ho provato una forte emozione. Mi colpisce il fatto che da prete, in Argentina, Bergoglio stava tanto tra la gente, scegliendo la compagnia dei più poveri, degli ultimi. Un cardinale che gira in autobus è un cardinale umile, e se conserverà questa umiltà anche adesso che è Papa, sarà sicuramente un bene per la Chiesa e per tutti i credenti».
Nel suo primo discorso il Pontefice ha detto: sono venuti a prendermi alla fine del mondo. Per le condizioni di vita, il quartiere in cui è cresciuto a Rosario era alla fine del mondo?
«Alla fine forse no, ma ai margini certamente. Era, ed è rimasto, un quartiere povero. Io ho una sorella di 2 anni più piccola e un fratellino che ne ha 3 meno di me. Per mantenerci, mio padre ha fatto mille lavori: il macellaio, l’operaio... Mamma si dava da fare in un negozio di alimentari. A noi badavano i nonni. Poi, io avevo 9 anni e l’Argentina era soffocata dalla crisi, mio padre decise di trasferire la famiglia in Spagna, nelle Canarie».
Fino a quel momento di cosa era stata fatta, la sua vita?
«Di scuola e pallone. A scuola ero bravo. Ci andavo in bicicletta, e non era nemmeno vicina. Studiavo con impegno, poi ho rallentato fino a lasciar perdere. Ho cominciato a giocare a 5 anni, nel Sarratea Infantil, vicino a casa. Il calcio neanche mi piaceva, ma mio padre ha insistito. Lui da giovane era stato al Rosario Centrai; a 15 anni era già sul punto di esordire in prima squadra, poi gli morì il padre e dovette smettere per andare a lavorare».
Quindi ha trasferito su di lei il suo sogno di sfondare nel calcio...
«Sì, e me l’ha pure detto tante volte: tu devi riuscire dove non ce l’ho fatta io».
E un’aspettativa tanto alta non è stata un peso?
«No. Al contrario, è stata una spinta ulteriore. Lui ha sempre voluto che diventassi il numero uno».
E lei pensa di riuscirci?
«Io penso di essere forte, e di poterlo diventare ancora di più».
Ha sempre giocato in attacco?
«In Argentina giocavo dove capitava. Attacco, centrocampo, difesa... Ho fatto anche il portiere. Ho indossato dal primo momento il “9” perché mi piaceva stare davanti, ma da bambino ero più alto rispetto ai miei coetanei, e Jose mi spostava dietro. Alla fine però si è convinto che gli conveniva schierarmi nell’area avversaria e non nella nostra» (ride).
È il tecnico cui si sente più legato?
«Sì. Quando torno a Rosario gli porto sempre una mia maglia. Ejuan, che vi ha fatto da guida nel mio quartiere (il relativo servizio segue questa intervista, ndr), è molto orgoglioso di me: si commuove ogni volta che mi vede giocare. Juan è parecchio più grande eppure è il mio migliore amico. Mi sono sempre trovato bene con le persone più anziane. Forse perché da loro posso imparare qualcosa. O forse perché ho sempre giocato a calcio con quelli avanti due o tre anni».
Rosario è anche la città di Leo Messi. È cresciuto nel suo mito?
«Ho sentito parlare di lui per la prima volta quando ha esordito nel Barcellona, a 17 anni. Io vivevo già a Gran Canaria e giocavo nel Vecindario. Qualche osservatore del Barcellona era venuto a vedermi e aveva segnalato il mio nome al club, Leo aveva saputo che c’era un argentino nato nella sua stessa città che interessava al Barca, così mi mandò una sua foto autografata con una dedica in cui mi invitava a seguirlo».
E dopo?
«Non è vera la storia secondo la quale Leo avrebbe continuato a mandarmi sms per convincermi ad accettare la proposta del Barcellona. Io non ho mai esitato nel dire sì ai blaugrana: solo un pazzo avrebbe rifiutato la proposta di entrare nel vivaio della squadra più forte al mondo. Leo l’ho incontrato per la prima volta solo tempo dopo, un giorno che usciva dall’allenamento. Mi sono avvicinato e gli ho detto: “Ti ricordi quel ragazzine cui hai mandato una tua cartolina? Sono io”. Da allora ci siamo visti abbastanza spesso a Barcellona, mai a Rosario. Mi portava fuori a cena, una volta mi invitò a casa sua, ma non ho potuto andarci. Adesso i contatti si sono un po’ allentati».
Ha mai giocato con o contro di lui in qualche partitella d’allenamento?
«Mai. Nei 2 anni e mezzo in cui sono rimasto nelle giovanili del Barcellona non c’era ancora l’abitudine di far lavorare i ragazzi a contatto coi grandi. È stato Guardiola a introdurre la regola che tutte le squadre, comprese quelle dei più piccoli, si allenassero nello stesso momento su campi vicini».
È Messi il suo modello calcistico?
«No. Per caratteristiche, il mio idolo è Batistuta».
Ha visto Barcellona-Milan? Le si è stretto lo stomaco al pensiero di aver lasciato una società come quella senza nemmeno provare ad arrivare in prima squadra?
«No. Il Barcellona mi ha insegnato tanto sul piano tecnico, molto meno su quello mentale, ma non è questo il punto. Il punto è che uno con le mie caratteristiche non potrebbe trovare spazio in quella squadra. Guardi Ibrahimovic, ha fallito perfino lui. Il Barca gioca senza centravanti, tutti i miei compagni d’attacco nelle giovanili, alti e grossi come me, hanno lasciato il club. No, non ho rimpianti».
E cosa ha pensato invece guardando la lezione di calcio impartita ai rossoneri nella partite di ritorno degli ottavi di Champions? L’impressione è che i 4 gol di differenza siano stati il frutto di straordinarie giocate individuali figlio di un modo diverso di intendere il calcio: da una parte, la tecnica, l’abilità nel palleggio e la costante ricerca di una manovra di qualità; dall’altra, un gioco basato molto sull’atletismo, sulla corsa, sulla fisicità. Una caratteristica di tutto il calcio italiano.
«È vero. Quando sono arrivato in Italia, a gennaio di 2 anni fa, la prima cosa che mi ha colpito, subito in allenamento, è quanto mi abbiano fatto correre. Tanto e senza palla. In Spagna non esiste. Tutto si fa con la palla, compresa la parte atletica del lavoro. Vuoi curare la velocità? Ti eserciti con la palla. Vuoi sviluppare la forza? Lo fai con la palla. Altro che palestra. Per questo lì giocano così bene. In Italia il pallone viaggia per aria, in Spagna per terra. Fanno 20 passaggi invece di 10, ma arrivano dove vogliono».
La sua scelta di rendersi convocabile per la nazionale argentina e non per quella italiana è definitiva?
«Sì. Io sono argentino. L’ho detto dal primo giorno».
E ci crede, alla possibilità di essere convocato?
«Ho già parlato col c.t. Sabella: se continuo a segnare, un posto lo. trovo».
Cosa le piace di Genova?
«C’è il mare. Si vive tranquilli. Però io amo i centri commerciali e qui ce n’è uno solo, la Fiumana. A Barcellona ne trovi uno ogni cento metri».
Milano ne è piena...
(sorride) «Infatti ci sono stato qualche volta. Ma non parliamo di mercato».
Ma alla sua età non le converrebbe restare un’altra stagione alla Samp per confermare quanto di buono ha fatto finora, prima di tentare il salto in una grande dove, adesso, rischierebbe tanta panchina?
«È vero, ma chi mi dice che in estate la Samp non prende un grande attaccante e io in panchina ci finisco lo stesso? D’altra parte non ho mai detto di voler andare all’Inter, al Milan o alla Juve. Io alla Sampdoria sto bene. Perciò, vediamo».
Cosa (’ha conquistata, della Samp?
«I tifosi: il derby qui è fuoco, ma in Argentina è peggio (ride). E la società: molto seria».
La prima cosa che ha imparato del nostro calcio?
«Che si prendono le botte. Qui ne danno tante. In Spagna è difficile vedere certi interventi: i difensori pensano più a costruire che a distruggere. Il problema sono i vostri arbitri, troppo permissivi: se uno non entra veramente duro, non gli fischiano fallo contro».
Qual è la raccomandazione che le fa più spesso il suo tecnico. Rossi?
«Di non giocare per me, ma per la squadra. Di fare pressing. E i movimenti giusti senza palla».
lcardi, come si definirebbe?
«Uno cui piace molto fare gli scherzi. Nello spogliatoio mi chiamano “l’animatore del villaggio”».