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 2013  aprile 04 Giovedì calendario

IN ESILIO, AL FRONTE O NASCOSTE L’ INVERNO DELLE FIRST LADY ARABE

C’ erano una volta le first lady arabe, croce e delizia del popolo oppresso, eterno femminino orientalista capace di attrarre l’adorazione ma anche l’insofferenza di una piazza costretta al silenzio che addebitava alla loro cupidigia le malefatte degli intoccabili consorti. Poi venne la rivoluzione, s’infransero i tabù, caddero i tiranni e le «tirannesse» restarono in scena sole, maschere tragiche chiamate a tenere in vita un mondo esangue come Asma Assad che, approfittando della festa della mamma, appare sorridente in tv circondata dai figli dei «martiri» mentre le vittime della guerra civile siriana oltrepassano quota 70 mila.

Se non è riuscito a spazzar via la vocazione autoritaria dei politici, il vento della primavera araba ha però segnato pesantemente i volti delle potenti signore di ieri. Aisha Gheddafi, l’unica e amatissima figlia del defunto Colonnello, sembra il fantasma della affascinante e battagliera leonessa ribattezzata la Claudia Schiffer libica. Il governo di Tripoli ripete che vive da tempo in Oman ma, secondo l’emittente al Arabiya, prima di lasciare la non più ospitale Algeria l’ex avvocatessa di Saddam Hussein nonché paladina della feroce Jamahiriya avrebbe dato istericamente alle fiamme parte del palazzo presidenziale in cui risiedeva esule dall’agosto 2011.

«Dotata mulier virum regit» dicevano i latini tradotti alla buona a posteriori con la massima «dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna». Ma la grandezza può anche essere di segno negativo, suggerisce Shakespeare che proprio a una donna, Lady Macbeth, assegna il ruolo più feroce e spregiudicato. Così, se qualche tunisino spaventato dalla deriva islamista del Paese ripensa nostalgico al despotico ma laico Ben Ali, nessuno rimpiange la presidentessa Laila Trabelsi, l’ex parrucchiera nota tra gli oppositori come «la rovina di Cartagine» per la sua vocazione alla corruzione, colei che dall’esilio saudita ha pubblicato un libro per spiegare il colpo di stato di cui è stato vittima il marito ma non ha mai reso conto della sottrazione di 1,5 tonnellate di lingotti d’oro dai forzieri della Banca di Tunisia (circa 45 milioni di euro).

La mitologica piazza araba può alla lunga essere indulgente con i dittatori, padri padroni che in fondo non si discostano troppo dall’iconografia tradizionalista di un certo islam, ma sembra assai meno generosa con le loro donne. I palestinesi non hanno mai digerito il matrimonio tra l’allora 27enne Suha Daoud Tawil e il 61enne Arafat, tanto che lei, consapevole delle accuse di opportunismo e avidità, non si fa scrupolo di rivelare ora al giornale turco Sabah il rammarico per quelle nozze e i mille tentativi di annullarle. E pazienza per la pensione di circa 9 mila dollari versatale mensilmente da quella Autorità Palestinese che non riesce a pagare i miseri stipendi dei suoi connazionali: Suha, stabilitasi con tutti i confort a Malta, rivendica il destino di erede (anche finanziario) del capo, ne detiene le spoglie, nega l’autopsia o chiede la quarta grottesca esumazione quasi per non smentire il suo ormai fosco personaggio.

Asma Assad, che mentre Homs assediata moriva acquistava online 11 ottomane da oltre 23 mila euro e a un tratto pareva attendesse felicemente un altro figlio per l’estate, è senza dubbio la protagonista del giorno in virtù della crisi che da Damasco rischia di divampare nella regione. Ma, prima di lei, è toccato a Suzanne Mubarak, la zarina d’Egitto messa alla gogna con l’accusa d’aver «irretito» l’un tempo valoroso generale portandolo ad accumulare un patrimonio tra i 40 e il 70 miliardi di dollari.

La rabbia popolare è cieca e se l’ex Faraona ha ammesso poi di aver tentato quel suicidio riuscito invece a Lady Macbeth onde evitare l’arresto altre, pur sedute ancora saldamente sul trono, sentono sul collo l’alito gelido del destino shakespeariano. La regina Rania, per esempio. Bellissima, fascinosa, un tempo beniamina delle folle, la palestinese più potente del mondo incarna oggi la sfida su cui si gioca il futuro del regno hasemita. La sua gente non la ama più: troppo glamour e «occidentale» per un tasso di disoccupazione che sfiora il 22% e accende rigurgiti conservatori. Lei, che ha 2,5 milioni di «seguaci» su Twitter, ha annusato l’aria pesante e si è affrettata a scrivere solo in arabo, indossare abiti più islamici e castigati, far sparire dal web le foto del suo 40esimo compleanno quando in brindisi e fuochi d’artificio se ne andò un bel pezzo di Pil del Paese.

L’insegnamento della primavera araba alle first lady old fashion è probabilmente che le donne pagano di più, alla base come al vertice della piramide sociale. Ma il loro potere è letterariamente spaventoso. Se domani la Turchia sconfesserà il secolarismo di Atatürk sdoganando l’hijab, non sarà grazie al premier Erdogan ma a sua moglie Emine, invisibile e dimessa come oggi l’egiziana lady Morsi fino al 23 aprile 2012, quando si presentò all’anniversario della Grande Assemblea Nazionale con il capo velato e gli occhi fieri da guerriera puntati sui generali allibiti.