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 2013  aprile 04 Giovedì calendario

IL VOTO SEGRETO PER IL COLLE FA RIEMERGERE LE CORRENTI

Si fa presto a dire che il prossimo Presidente della Repubblica lo «faranno» loro, i leader dei partiti. Sarà trattativa dura, si dice, ma alla fine i capi si metteranno d’accordo e l’intendenza dei peones seguirà le indicazioni di Bersani, Berlusconi, Grillo e Monti. Ma andrà davvero così? La storia dice una cosa diversa, molto diversa: quando c’è in ballo il Quirinale, non c’è calcolo che tenga: con l’aiuto del voto segreto, i parlamentari diventano più liberi, sono meno legati agli ordini dei capi-partito. Da 65 anni le votazioni per eleggere il Capo dello Stato sono state contrassegnate da imboscate, fuoco amico che ha incenerito le ambizioni di grandi leader. Al punto che l’unico partito-guida che l’Italia abbia avuto, la Dc, non è mai riuscita ad eleggere i suoi «cavalli di razza» alla guida dello Stato. Nel 1948 un gigante come Alcide De Gasperi avrebbe voluto portare al Quirinale una personalità come Carlo Sforza, ma una piccola corrente, quella dei dossettiani, fece mancare i voti e la Dc si convinse che era meglio glissare su Luigi Einaudi. Negli Anni Sessanta e Settanta i due «cavalli di razza» della Dc, Amintore Fanfani e Aldo Moro, furono costretti a rinunciare alle loro ambizioni presidenziali per effetto di ripetute imboscate, organizzate da correnti piccole e grandi. Per non parlare dell’atroce duello che nel 1992 divise Arnaldo Forlani («cecchinato» dagli andreottiani) e Giulio Andreotti, costretto a rinunciare alla corsa dall’assassinio di Salvo Lima.

Insomma, quasi mai il «piano» studiato a tavolino regge alla prova dei fatti: la corsa al Quirinale si è puntualmente trasformata in un invito a nozze per i «sub-partiti», per i gruppi organizzati dentro ogni forza politica. E anche stavolta ci sono i presupposti perché il gioco si ripeta. I quattro agglomerati più consistenti Pd-Sel (495 seggi), Pdl-Lega (268), Cinque Stelle (164), Scelta Civica (71) non dispongono dei voti sufficienti (504) per eleggersi un Presidente per conto proprio e ciò che rende ancora più impervia la via «autarchica» è la evidente divisione con la quale il Pd si presenta all’appuntamento. Lo schieramento progressista dispone di 495 voti e dunque gliene mancano soltanto 9 per superare la quota della vittoria, voti che in linea del tutto teorica il Pd potrebbe acquisire, contrattandoli sopra o anche sotto il banco.

Ma il Pd, partito di maggioranza relativa, non si presenta all’appuntamento come un blocco granitico. Nel corso degli anni si sono stratificati gruppi e gruppetti, che fanno del partito democratico una federazione di componenti più o meno organizzate: destinate a riproporsi in occasione delle votazioni segrete? Il Pd si presenterà alle udienze in seduta comune con un esercito di grandi elettori, 436, un numero senza precedenti nella storia repubblicana, vista che neppure la grande Dc ne ebbe mai altrettanti. Di questi, circa la metà (210-220) appartengono all’area Bersani, che è formata da tre anime, distinte tra loro. Ci sono i bersaniani doc (circa un centinaio), il compatto nucleo di amici di Massimo D’Alema e poi c’è il gruppo dei «Giovani turchi», la vera novità del Pd. Una settantina di parlamentari tra Camera e Senato, fautori di un forte rinnovamento del gruppo dirigente ma su una linea di sinistra, i «turchi» si sono già espressi contro la candidatura di Romano Prodi, hanno creato il clima interno che ha portato verso la presidenza Boldrini a Montecitorio. E ora? Forti di un nucleo di «blocco», si muoveranno come una volta facevano le correnti della Dc e del Psi? «Lo escludo - dice Matteo Orfini, uno dei capofila del gruppo - e non solo per quanto riguarda il Pd: i nostri gruppi parlamentari e quelli del Cinque Stelle sono quasi totalmente nuovi, anche per questo capaci di esprimere a viso aperto consensi ed eventuali dissensi. La prossima elezione sarà segnata da una maggiore trasparenza rispetto a quelle della Prima Repubblica».

Le premesse di una maggiore trasparenza effettivamente ci sono, ma nel Pd c’è un’altra area molto disciplinata, capace di muoversi tra le linee: quella che fa capo a Matteo Renzi. Cinquantuno parlamentari, destinati a saldarsi ai dieci veltroniani, i renziani si sono già riuniti più volte ed è l’unico gruppo che si muove come le correnti di una volta. Naturalmente per un partito frazionato come il Pd una possibile via di fuga è rappresentato dal modello-Msi: l’accordo sottobanco con un partito interessato ad entrare in gioco. Con un Pdl che si presenta granitico, quel partito può essere la Lega? Roberto Maroni è riuscito in un’impresa senza precedenti: i 36 eletti leghisti sono tutti di provata fede. «Sì, è proprio così, la Lega è un blocco unico spiega Gianluca Pini, vicepresidente dei deputati - come sempre nelle votazioni per il Capo dello Stato e come sarà anche stavolta. E nessuno può far finta di non vedere che la Lega sarà determinante». Anche la Scelta Civica di Monti è segnata da divisioni tra i fedelissimi del Presidente, l’area di Italia Futura e quella cattolica di Riccardi, Dellai e degli Udc. E proprio per mascherare questo frazionamento ed evitare operazioni sotto banco, Monti pare sia tentato di chiedere ai suoi di indicare il suo nome nelle prime votazioni. Ma la più promettente operazione sotto banco, il Pd potrebbe tentarla con i Cinque Stelle: davanti ad un candidato «votabile» come Pietro Grasso, alcuni senatori grillini hanno già tradito le indicazioni del capo e le assemblee di deputati e senatori finora svolte hanno dimostrato che, accanto ad un nucleo di 100-110 lealisti, si muovono 40-50 parlamentari più inquieti, un interessante bacino potenziale in occasione delle votazioni segrete. Sostiene un personaggio come Pier Luigi Castagnetti, protagonista nella Prima e nella Seconda Repubblica: «La Dc non riuscì quasi mai ad eleggere il suo candidato per l’interdizione sotto banco delle correnti avverse, che però erano guidate da grandi player: oggi quei personaggi non ci sono e anche il dietro le quinte sarà più prevedibile».