Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 22 Venerdì calendario

600MILIONI DI ROTTAMI NELLO SPAZIO


La carretta spaziale più vetusta? È il satellite americano Vanguard 1, lanciato il 17 marzo del 1958: un giocattolino sferico di un chilo e mezzo, più piccolo di un pallone da calcio, che da 55 anni gira instancabile sopra le nostre teste. Anche se è in pensione (non trasmette più dati dal 1964), è destinato a stare lì altri 200 anni.
Lo spazio attorno alla Terra ormai è molto affollato. Non rischiamo solo che ci cadano in testa meteoriti e asteroidi (l’evento degli Urali dello scorso febbraio ce lo ha ricordato) ma anche pezzi di satelliti artificiali.
Dalla partenza dello storico Sputnik 1 sovietico il 4 ottobre 1957, sono stati effettuati qualcosa come 5.200 lanci, che hanno messo in orbita oltre 6 mila oggetti. Un numero impressionante. Ma lo è ancora di più sapere che di essi solo una frazione è ancora in funzione: circa un migliaio. I rimanenti sono rottami, space junk, spazzatura spaziale, come dicono gli americani. Anzi, a essi bisogna aggiungere altre migliaia di piccoli oggetti: da frammenti di vernice a bulloni, da stadi di razzi ai guanti persi dagli astronauti...

Molti invisibili. «In totale lo spazio che circonda il pianeta è affollato da circa 20 mila oggetti visibili di origine umana» spiega Claudio Portelli, responsabile della problematica dei detriti spaziali all’Asi, Agenzia spaziale italiana. «Vi sono i satelliti attivi, quelli non più operativi, ma anche parti terminali dei razzi utilizzati per metterli in orbita, e frammenti originatisi con esplosioni e collisioni».
Uno dei problemi maggiori è che gli oggetti che riusciamo a vedere e a tenere sotto controllo sono solo una piccola parte della miriade esistente. Le moderne tecnologie riescono infatti a rilevare frammenti di qualche centimetro che si trovano in orbita bassa (fino a 2 mila km di quota) e "pezzi" di almeno 10 cm in orbita geostazionaria (a 36 mila km dalla Terra); formano quella che si chiama "popolazione di tipo A". «Gli oggetti di tipo sono invece quelli non visibili e quindi non catalogati, grandi tra 1 e 10 cm. Si stima siano circa 600 mila» precisa Portelli. «Infine ci sono gli oggetti di tipo C, più piccoli di 1 cm: sono residui di esplosioni, di degradazione dei satelliti e di collisioni. Potrebbero essercene qualcosa come 600 milioni». Questo immenso esercito di proiettili che viaggiano a velocità dell’ordine dei 10 km/s rappresenta un rischio notevole per gli astronauti (quando c’era lo shuttle, decine di suoi finestrini sono stati sostituiti perché colpiti da detriti), per i satelliti in funzione ma soprattutto per il futuro dell’attività spaziale.

Le regole. Per questo, il problema della space junk è di estrema attualità. Per mitigarne i rischi, innanzitutto le regole per i lanci sono diventate più stringenti: i nuovi arrivati in orbita devono non solo evitare di esplodere e di perdere pezzi, ma fin dalla partenza deve anche essere previsto il loro spostamento su un’orbita di parcheggio (o un rientro controllato nell’atmosfera) alla fine della loro vita operativa.
Ma non basta. Ci si deve difendere dalla spazzatura spaziale esistente. Per gli oggetti di tipo A, le contromisure sono relativamente semplici: dato che si può sapere se c’è il rischio di una collisione con essi si cerca di evitarla. Per esempio, la Stazione spaziale internazionale (Iss), quando i calcoli mostrano che passerà molto vicino a qualche altro oggetto orbitante, viene spostata alzandone o abbassandone l’orbita di qualche chilometro. Da quando la Iss è pienamente operativa, cioè dalla fine del 1998, le manovre di questo tipo sono state ben 15. L’ultima è avvenuta il 1° novembre del 2012, per schivare un frammento generato dallo scontro, avvenuto il 10 febbraio del 2009, tra il satellite americano Iridium 33 e il russo Cosmos 2251.

Pronti alla fuga. Quando invece non c’è stato il tempo per effettuare la manovra "diversiva", cioè in altre 3 occasioni, gli astronauti si sono rifugiati nelle navicelle Soyuz attraccate alla Iss, pronti a un rientro d’emergenza sulla Terra. Come però ha dimostrato l’Iridium 33, anche gli scontri accidentali tra grandi oggetti non sono impossibili: «Il risultato di quella catastrofica collisione è stata la perdita del satellite, ancora operativo, e la sua frantumazione in migliaia di piccoli frammenti visibili e in milioni di invisibili» precisa Portelli. «Per comprendere meglio la gravità del fenomeno, basta ricordare che a oggi sono state registrate cinque collisioni accidentali tra satelliti e razzi spenti. Inoltre sono state osservate più di 120 esplosioni», spesso dovute a residui di propellente.
Dagli oggetti di tipo C ci si può invece proteggere con appositi schermi.
Il problema di più difficile soluzione sono gli oggetti intermedi, quelli di tipo B: non sono visibili ma possono essere pericolosi. «La collisione di un satellite con uno di essi può essere critica, e portare alla perdita di alcune funzionalità del satellite stesso. Inoltre, se un detrito danneggia uno dei tanti satelliti che garantiscono, per esempio, le trasmissioni televisive, le previsioni meteorologiche o i segnali di navigazione satellitare, anche le conseguenze economiche sono pesanti».

Occhi sul ciclo. A tenere d’occhio il traffico dei detriti spaziali ci pensa, tra gli altri, l’US Space surveillance network, una rete di circa 20 stazioni sparse per il mondo che segue circa 20 mila frammenti. L’importanza del fenomeno è tale che anche le Nazioni unite hanno preso posizione, emanando nel 2010 delle linee guida per mitigare gli effetti degli space debris. Un apposito comitato delle Nazioni unite ha anche definito due regioni orbitali "protette", da preservare per il futuro: la prima va dalla superficie terrestre fino a 2 mila km di quota, la seconda tra 34.786 e 36.786 km (tra 15° nord e 15° sud dell’equatore), per i satelliti geostazionari.
La preoccupazione di molti è che «la popolazione di detriti sia vicina alla soglia che le permette di autoalimentarsi con le collisioni».
Gli esperti la chiamano "sindrome di Kessler", dallo scienziato della Nasa Donald Kessler che nel 1978 delineò uno scenario per cui in orbita bassa la densità di frammenti diventa tale da innescare una reazione a catena di scontri che porterebbe alla distruzione di tutto quanto è in orbita.

Effetto Sole. Per fortuna, in un certo senso, ci dà una mano il Sole. In questo periodo siamo in una fase di massima attività della nostra stella. Tra i suoi effetti, c’è anche quello di ripulire lo spazio dai 700 km in giù. Con l’attività solare, infatti, l’atmosfera terrestre si gonfia, e le collisioni tra le sue molecole e gli oggetti orbitanti producono un frenamento. Il risultato è che l’oggetto perde quota, finendo progressivamente per disintegrarsi del tutto o in parte nell’atmosfera. Questo è positivo per i detriti, ma ovviamente deleterio per i satelliti operativi e la Iss, che periodicamente devono essere "spinti" di nuovo verso l’alto.
Il Sole però non basta: «Bisognerà trovare forme di accordo internazionale con le quali ogni anno si autorizzi la cattura in orbita di almeno 5 tra i satelliti più pericolosi, e il loro spostamento su orbite basse, in modo che rientrino in maniera controllata sulla Terra o meglio ancora negli oceani» conclude Portelli. A proposito: nel Pacifico meridionale, a sud-est della Nuova Zelanda, c’è una zona proprio destinata a questo. Qualcuno la chiama "il cimitero dei satelliti".
Gianluca Ranzini