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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

MENNEA: UN MINUTO, 19”

e 72 CENTESIMI DI SILENZIO -
Il questore Buttiglione si preparava alle grandi manovre fin dal sabato mattina. Metteva da parte una banconota, la infilava in una busta e sulla stessa scriveva il nome di Pietruzzo, il figlio di Vincenzina e Salvatore, sarto in Barletta, con più di qualche fratello a carico. Buttiglione lo aspettava al bar di Porta Marina. Annunciato da uno sferragliare nervoso, Pietro Mennea frenava. Consegnava il vestito buono della domenica, incamerava il denaro e infine, prima di riannodare i pedali e correre dietro a un pallone a due passi dalla cattedrale, porgeva ossequio all’autorità. Ora che al termine di una sofferenza orgogliosamente reclusa - come tutto il resto - nella pudica sfera dell’intimità, gli omaggi toccano a lui. Lo Sport italiano ne piange l’unicità. Ricordare i record capaci di resistere ai decenni (19,72, 200 metri, 17 anni senza rivali), lucidare le medaglie o stupirsi di fronte alle 5 Olimpiadi, somigliano a esercizi inutili. Fu il più grande. Il velocista della volontà contro la ragione. L’illusione che lo sport potesse resistere ai trucchi, alle menzogne, agli omicidi premeditati a mezzo chimica con la sola tecnica d’allenamento. Era un migrante, Pietro Mennea. Uno che trovò la sua Milano a Formia, poggiando la valigia nell’angolo del Centro Federale e indossando la tuta a sud dell’Agro Pontino. Con l’acqua minerale al tavolo, l’odore del mare nelle prime mattine d’estate, il professor Vittori in cattedra e il Tartan, 350 giorni l’anno.
LO VEDEVI sui blocchi, Calimero naturale, e sottovalutarne il magro profilo era automatico. Poi Pietro partiva e trasformava le alchimie dei tanti Frankenstein oltrecortina in esperimento fallito e le leve dei favoritissimi afromericani in sterili esercizi di bellezza. Vinceva comunque Pietro. Quello che aveva più fame. Il perfezionista e l’improvvisatore. Il primo a entrare e l’ultimo a uscire dal campo perché l’unico vaccino contro l’indolenza che conoscesse era trottare. A Barletta, da ragazzo, per guadagnare un panino sfidava le Porsche di corsa tenendo svegli fino a notte fonda gli abitanti di Viale Giannone. Cinquanta metri di vantaggio, 500 lire di ricompensa, la gente alla finestre, il cuore in gola, la paura della Polizia. Se l’era vista brutta, Mennea. E se lo ricordava nutrendo un’umiltà immacolata che non di rado trasformava in senso di colpa: “Nel ’73 comprai una Lancia da Rally, la rivendetti subito per timore di aver esagerato”. O in esempio. Era competitivo, illuministicamente votato a migliorarsi. Rimontava le distanze culturali con l’applicazione. Allora conseguiva lauree in serie (quella in Scienze politiche, 20 giorni prima dell’oro sui 200 a Mosca) sedeva senza imboscarsi a Bruxelles in Parlamento, duellava da avvocato anche contro gli ex colleghi. Giovanni Evangelisti, apodittico, osteggiò la sua candidatura alla presidenza della Fidal: “Si è dopato, non può farlo”. Mennea rispose duro: “Rancore”. Antipatico, dicevano. Rimproverandogli, soprattutto, di non essersi fermato alla superficie. Di aver taciuto quando gli chiedevano la vacua presenza tv pretendendo di celebrare il cartonato più che la persona. Era solo serio. Teneva a se stesso.
Tutti scarnificavano la memoria di un primato sudamericano fingendo di ignorare il Mennea che accantonati gli scarpini, non aveva smesso di girare intorno a un’idea. Pranzava con Pertini, aiutava gli umili, parlava del suo Paese, assisteva al passare degli anni con quei 4 numeri intervallati da una virgola (19,72) conquistati alle Universiadi di Città del Messico nel 1979 e da allora indisposti ad abdicare. Muhammad Ali gli domandò come potesse un bianco sovrastare un nero sulla corsa, e Mennea lo fulminò: “Dentro sono nero come te”. Apolide e arrabbiato perché disse: “A scuola il mio compagno Pallamolla mi batté per l’ennesima volta, decisi di reagire. Scoprii che da incazzato, correvo più forte”. Qualche volta, viaggiando tra le nuvole al confine tra nazioni, identità e appartenenza, anche l’eroe di Città del Messico, Pietro il monastico, incontrava situazioni di contrabbando: “Ero in Polonia, per i campionati juniores, la ragazza era così bella che dirle di no, non si poteva. Passai la serata con lei e rientrai tardi. I tecnici mi beccarono. Erano irritati: ‘vediamo se domani corri’. Arrivai quarto”. Felice. Sincero: “Valse la pena perdere”.