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 2013  marzo 24 Domenica calendario

ECONOMIA SOTTO ASSEDIO? È ORA CHE «ARRIVINO I NOSTRI»

Abbiamo menzionato più volte in questi appuntamenti settimanali del Sole Junior il nome di Keynes. E in effetti è difficile parlare di economia senza incappare nel nome del più grande economista del Novecento, una figura torreggiante e complessa (vedi l’articolo a fianco). Ma la ragione del perché ne abbiamo parlato più volte (l’ultima volta la settimana scorsa col "paradosso del risparmio") sta nella crisi. La crisi economica che ha colpito l’America, l’Europa e il mondo nel 2008-2009, e che continua ancora adesso sotto altre forme, ha fatto tornare in auge le teorie keynesiane.
Cosa dicono queste teorie? E perché hanno segnato tutto il dopoguerra, perché hanno ispirato fiere lealtà e amare avversioni, fino a dividere il campo di battaglia degli economisti fra keynesiani e anti-keynesiani?
Andiamo per ordine, e spieghiamo prima di tutto l’essenza delle teorie di Keynes. Come tutte le grandi idee, quella di Keynes, a guardarla col senno di poi, sembra chiara, quasi ovvia. Come era ovvia un’altra grande e profetica convinzione di John Maynard Keynes (d’ora in poi diremo JMK): in uno dei libri più importanti del Novecento – uno smilzo libretto chiamato «Le conseguenze economiche della pace» – JMK si scagliò contro il Trattato di Versailles che aveva posto fine alla Prima guerra mondiale e condannato la Germania alle riparazioni: somme immense, che la Germania non avrebbe potuto pagare e le tensioni che ne seguirono, col sorgere del nazismo, avrebbero portato - JMK ebbe ragione - a nuovi terribili conflitti.
Ma veniamo all’altra grande intuizione di JMK, che venne compiutamente esposta nella sua opera più famosa: un libro del 1936, la «Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta». Sentite che cosa scrisse Paul Samuelson (un premio Nobel dell’economia cui abbiamo dedicato una puntata il 23-9-12) di quel libro: «È scritto male, organizzato male... un lettore che, attirato dalla reputazione dell’autore, l’avesse comprato, avrebbe sprecato cinque scellini... È arrogante, irato, pieno di confusioni convolute... Lampi di intuizione sono mischiati a un’algebra tediosa. Una goffa definizione improvvisamente lascia il posto a una cadenza indimenticabile. Quando alla fine ci se ne impadronisce, troviamo che quei risultati sono ovvi e allo stesso tempo nuovi. Per farla breve, è il lavoro di un genio».
Allora, in che cosa consisteva quella grande idea? Lasciando da parte la teoria per andare alle conseguenze pratiche di quel che diceva JMK, l’idea era questa: quando l’economia è in crisi non bisogna arroccarsi, stare fermi e risparmiare virtuosamente. Al contrario, bisogna spendere per rimettere i soldi nel circolo. Bella idea, direte voi, ma se l’economia è in crisi vuol dire che di soldi ce ne sono pochi: come fa uno a spendere soldi che non ha? L’obiezione è giusta. E allora? Allora bisogna che i soldi vengano messi da chi li può mettere, cioè lo Stato.
Lo Stato può spendere i soldi che non ha, indebitandosi o addirittura stampando moneta. È l’unico che non abbia problemi, se davvero vuole spendere. Quando l’economia è sotto assedio e c’è bisogno che "arrivino i nostri", chi sono i Nostri? Ovviamente, lo Stato. Ovvio, no?
Beh, prima di Keynes non era ovvio per niente. Il pensiero dominante era questo: i tempi sono duri e il governo deve dare il buon esempio. Se i conti dei cittadini non sono in ordine, almeno quelli dello Stato devono essere in ordine: bisogna tenere il bilancio in pareggio, comportarsi da buon padre di famiglia, e via ammonendo. Keynes invece disse: il buon funzionamento dell’economia non dipende da quanto si produce ma da quanto si domanda. È la domanda che "tira" l’economia, e se l’economia langue bisogna creare domanda, a tutti i costi. Leggete qui di seguito quel che JMK scrisse nel Libro 3°, Capitolo 10, Sezione 6 della «Teoria generale...»: «Se il Tesoro dovesse riempire vecchie bottiglie con banconote, sotterrarle a profondità adeguate in miniere di carbone in disuso, riversare nelle miniere rifiuti urbani fino alla superficie, e lasciare poi alla libera iniziativa... il compito di dissotterrare le banconote...., la disoccupazione non aumenterebbe più e, con l’aiuto delle successive spendite, il reddito reale e la ricchezza della comunità sarebbero probabilmente molto più elevati di quanto si darebbe altrimenti. Certamente, sarebbe più sensato costruire case o altro. Ma, se ci sono difficoltà politiche o pratiche nel farlo, quel che si è detto sopra sarebbe meglio che niente».
In effetti, se ci si pensa JMK ha ragione. E la teoria keynesiana fece molti adepti. Ma negli anni Sessanta e Settanta ebbe anche molti avversari: i rimedi di JMK vanno bene quando c’è la disoccupazione, ma cosa fare quando invece l’economia è afflitta da alta inflazione? Nella crisi petrolifera del 1973-75, quando il prezzo del petrolio si quadruplicò, l’inflazione esplose, la gente aveva paura e i bilanci pubblici già andavano in deficit perchè le entrate fiscali diminuivano, bisognava davvero che lo Stato spendesse di più e allargasse ancora il deficit? E cosa succede se i cittadini vedono che il deficit pubblico si allarga a dismisura e si preoccupano che domani bisognerà alzare le tasse per colmare i buchi del bilancio? E se queste preoccupazioni fanno sì che risparmino di più e spendano di meno, così vanificando la maggiore spesa dello Stato?…
Come vedete, i problemi sono tanti, e i keynesiani si trovarono presto a fare i conti con gli anti-keynesiani. Ma l’intuizione di Keynes rimane valida e la crisi recente - la Grande recessione - lo ha dimostrato. Quando l’economia è stata colpita, gli ordini sono crollati, la produzione è scesa, la disoccupazione ha dilagato, tutti i governi non si sono attardati in dotte discussioni su keynesismo e anti-keynesismo: hanno allargato i cordoni della borsa. Quando la casa brucia bisogna chiamare i pompieri, senza chiedersi se l’acqua degli idranti potrà causare inondazioni o chiedersi se è bene lasciare la casa bruciare così la gente impara che non bisogna fumare a letto.