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 2013  marzo 24 Domenica calendario

LA GRANDE RIVALSA DI CIPRO NORD

La breccia che si era aperta a Nicosia nell’ultimo Muro d’Europa si richiuse amaramente il 25 aprile 2004 quando il referendum dell’Onu sulla riunificazione di Cipro fu approvato dai turchi e respinto dai greci: veniva così sancito il paradosso territoriale di un’isola che una settimana dopo, il primo maggio, da una parte diventava Europa mentre l’altra ne restava fuori. I greci, che si erano già garantiti l’accesso all’Unione, non avevano nessun interesse a mettersi insieme ai turchi: Bruxelles commise un errore clamoroso che fece affondare il piano del segretario dell’Onu Kofi Annan.
I greci, favoriti anche dalla diffidenza tedesca e francese a vedere dei turchi entrare nell’Unione, erano riusciti nel colpaccio di diventare cittadini di Bruxelles e conservare il loro sistema bancario offshore e una legislazione che tassava le compagnie straniere al 10% dei redditi societari, tre volte meno della media continentale.
Cosa si poteva volere di più? Avevano salvato il portafoglio e negoziato un comodo atterraggio nelle regole europee della concorrenza perseverando nel dumping fiscale che attirava capitali dal mondo nonostante Cipro fosse lontana dalle grandi rotte internazionali.
Nicosia in realtà dalla fine degli anni 80 era già diventata il rifugio delle ricchezze che si erano formate in Russia e nei Balcani in un periodo di liberalizzazioni selvagge, di guerre e conflitti, quando era l’arbitrio a dominare le economie dell’Est dopo il crollo del comunismo e la disgregazione dei vecchi stati nazionali.
Lo stesso leader serbo Slobodan Milosevic aveva trasferito a Cipro una parte dei soldi incassati nel ’97 con la vendita di Telecom Serbia a Telecom Italia: 890 milioni di marchi, circa 450 milioni di euro. Gli italiani, dopo la guerra di Bosnia e la pace di Dayton, avevano così finanziato il vojvoda di Belgrado, che si preparava a schiacciare il Kosovo, e a sua volta l’autocrate serbo aveva portato il malloppo al sicuro, nel tepore finanziario di Nicosia.
Senza fare scomode domande Cipro apriva le sue banche agli oligarchi russi che sotto Boris Eltsin sarebbero diventati i nuovi padroni dell’ex Unione Sovietica: una bella tradizione di fuga di capitali che è continuata con Putin. Si capisce bene perché adesso a Mosca siano infuriati con l’Europa.
Al momento del disgraziato referendum del 2004 il reddito medio pro capite dei greco-ciprioti era intorno ai 18mila euro l’anno mentre quello di un cittadino della Repubblica turca del Nord, non riconosciuta da nessun governo europeo, era tre volte inferiore. Da una parte vivevano i poveri ma dignitosi turchi, dall’altra i “ricchi” greci. Dirlo adesso, nel pieno di questa crisi finanziaria, sembra strano ma allora era proprio così: nell’apparenza di sicuro, nella sostanza, come si è visto, forse un po’ meno.
Nella repubblica di Cipro Nord, sottoposta a quel tempo come oggi a embargo e sanzioni commerciali, resistevano piccoli negozi, locali caratteristici di un lontano Novecento mediterraneo e a Lefkosa, la capitale, si alloggiava in alberghi puliti ma quasi deserti e dall’atmosfera fané. Però si andava volentieri a visitare le rovine di Famagosta e mentre si passeggiava tra i fantasmi della Serenissima lo sguardo si perdeva su spiagge attraenti e solitarie.
Anche d’estate, quando a Nicosia non si trovava un buco nei ristoranti con i menù in inglese e russo, a Cipro Nord sembrava sempre bassa stagione: era un altro mondo, separato sulla Linea Verde da un filo spinato attorcigliato a una vegetazione bassa e giallastra che spuntava da muri sbreccati dalle raffiche che le due parti si scambiarono nel luglio 1974, quando i turchi occuparono il 36% di territorio a Nord dell’isola in risposta a un colpo di Stato ellenico ispirato dalla giunta dei Colonnelli, allora al potere ad Atene.
Da qualche tempo però i 300mila turco-ciprioti hanno rialzato la testa. Anche loro, al riparo dagli scossoni dell’euro, stanno cavalcando il boom economico della madrepatria (la crescita annua è del 4%) con nuovi centri turistici e una pericolosa colata di cemento sullo stile di quella che ha già rovinato le coste turche.
La Turchia è generosa con la sua appendice cipriota: versa ogni anno aiuti per 600 milioni di dollari e sta costruendo per irrigarla un acquedotto sottomarino. E poi c’è il gas, con i progetti energetici legati allo sfruttamento della piattaforma continentale, un argomento scottante perché il governo Erdogan contesta duramente i diritti estrattivi della parte ellenica. Persino Mosca su questo punto esita a mettersi in rotta di collisione con Ankara, partner economico di primo piano per il passaggio verso l’Europa dei gasdotti russi.
Ma la crisi debitoria di Nicosia apre anche altre prospettive. Per esempio l’afflusso di capitali e depositi bancari in fuga, al punto che le autorità turche hanno già avvisato gli istituti di credito locali di evitare violazioni alle leggi anti-riciclaggio. Certo che se con la paura del prelievo forzoso arrivassero nelle banche turche anche i soldi dei greco-ciprioti questa sarebbe una sorta di nemesi mitologica per Nicosia, che quasi un decennio fa rifiutò la riunificazione dell’isola. Una beffa per l’orgoglio ellenico ma anche per le dissennate e miopi politiche europee.