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 2013  marzo 25 Lunedì calendario

CONFESSIONE


di Mauro della Porta Raffo





Continuare a tacere?

Sarebbe meglio?

E perché proprio adesso, poi?

Quale, l’urgenza?

Infinite le domande che al riguardo mi pongo.

E resteranno senza risposta.



1910, tardo autunno.

Vienna.

Enrico, disegni e dipinti sotto braccio, si presenta alla locale e celebratissima Accademia di Belle Arti.

Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma come opporre ancora una volta un no alla mamma?

“Sei un pittore”, gli va dicendo da tempo.

“Smettila con le fughe per mare, con i viaggi.

Conosci il tedesco.

A Vienna capiranno.

Studierai con i migliori.

E’ la tua strada”.



Due settimane.

Occorreranno ben due settimane per avere il responso.

Ammesso?

Respinto?

Vedrà.

Baldoria, nel frattempo, comunque.

Ha soldi e nient’altro da fare che divertirsi.



I giorni, se spensieratamente vissuti, scorrono in fretta.

Lo riceve un austero e barbuto signore.

Ha la cartella dei suoi lavori in mano.

“Mi spiace”, assicura per quanto il viso non dimostri affatto una particolare afflizione.

“Non se ne parla.

La commissione non la ritiene idoneo.

Non crediamo possa avere prospettiva alcuna nel campo”.



Deluso?

Appena un poco.

Se lo aspettava.

E poi, molto meglio tornare all’amatissimo mare.

Imbarcarsi.



Esce e sui gradini del palazzo s’imbatte in un giovane malvestito ed evidentemente triste.

E’ seduto e, ad un metro circa da lui, giace una cartella dalla quale, come l’avesse gettata via, escono disegni e acquerelli.

“E’ andata male anche a te?”, chiede ben conoscendo la risposta.



Sera.

Hanno finito di mangiare.

Enrico ha denaro e quindi…

Sul tavolo accanto, un giornale.

Un’occhiata prima di andare.

“Domani, che fai”, chiede al commensale.

“Niente”, è la risposta.

“Che ne dici del Prater.

La ruota panoramica.

Vediamo la città dall’alto…”

“A che ora?”, è la risposta.



Pomeriggio del giorno dopo.

La grande ruota gira.

In cima, il giovane si alza in piedi e fa per buttarsi.

Enrico, se l’aspettasse o meno, è pronto e lo ferma.

E’ forte e lo calma con un appropriato cazzotto.



A terra.

“Ma che diavolo!

Cosa ti salta in mente?

Sei matto?” e altre consimili esclamazioni e domande.

“Non lo farai mai più, vero?”

E se lo fa promettere.



Dieci minuti e, salutando il desso, mio nonno Enrico gli chiede:

“Ma come ti chiami?

Adolf e poi?”

“Adolf Hitler”, è la risposta.



(homenaje a Kurt Vonnegut)



Varese, 24 marzo 2013