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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

QUI È MEGLIO TOCCARE FERRO

Dall’inizio del 2013 le quattro più grandi società minerarie al mondo hanno cambiato amministratore delegato. Dopo Rio Tinto, Anglo American e Xstrata, a fine febbraio è stata la volta di Bhp Billiton, la regina del settore. Più che protestare per i 75 milioni di dollari concessi come buonuscita a Marius Kloppers, per sei anni al vertice di Bhp, azionisti e analisti hanno iniziato a preoccuparsi per il futuro del comparto. Abituate a guadagnare sempre, anche quando le Borse mondiali crollavano e le banche venivano salvate dai governi, parecchie società minerarie si sono infatti ritrovate a fare i conti con il segno meno in bilancio.
Bhp Billiton, multinazionale anglo-australiana da 72 miliardi di dollari di fatturato annuo, ha chiuso il primo semestre con utili in calo del 58 per cento. Peggio ancora hanno fatto gli altri giganti del settore. Rio Tinto ha perso tre miliardi, il primo rosso della sua storia. Anglo American ne ha lasciati sul terreno quattro. La brasiliana Vale ha registrato la prima perdita in 10 anni. È la fine del super-ciclo? Di sicuro, da qualche tempo i grafici hanno invertito rotta rispetto all’ultimo decennio, periodo caratterizzato da un aumento costante dei prezzi. Prendiamo il ferro, la principale commodity mineraria. All’inizio del 2011, in piena crisi finanziaria, una tonnellata valeva circa 190 dollari. Il prezzo medio del 2012 è stato di 128 dollari. E secondo alcuni analisti, per esempio quelli di Standard Bank, anche nei prossimi anni il minerale starà sotto i 130 dollari. Gli ultimi segnali rafforzano le previsioni. A febbraio la domanda cinese di ferro è calata del 14 per cento rispetto a gennaio, il secondo ribasso consecutivo. Il dato conta, visto che Pechino consuma il 60 per cento del ferro prodotto nel mondo.
Andamenti simili valgono per quasi tutti i minerali: argento, rame, platino, palladio. Anche l’oro, arrivato a sfiorare i 1.800 dollari per oncia nel 2011, ora viaggia stabilmente sotto i 1.600 dollari. «Il calo dei prezzi», spiega Alessandro Zappa, analista di Kommodities Partners, «dipende principalmente dalla Cina, vero motore del super ciclo, il cui attuale ritmo di crescita è inferiore a quello ipotizzato in molti piani industriali». Insomma, la frenata del Celeste Impero sta provocando pesanti perdite. La più clamorosa, costata il posto all’amministratore delegato Tom Albanese, è stata annunciata a gennaio da Rio Tinto: una svalutazione da 9 miliardi di dollari legata ad Alcan, società attiva nell’alluminio, acquistata nel 2007 per 38 miliardi di dollari, il cui valore in bilancio finora era già stato ridotto di 10 miliardi. Gli azionisti di Rio Tinto questa volta non hanno sopportato: Albanese è stato sostituito con Sam Walsh, manager interno che ha promesso subito una gestione votata all’austerità. È la strategia annunciata da quasi tutti i nuovi volti del settore minerario: taglio dei costi e vendita delle attività non essenziali, con la promessa di un aumento dei dividendi per gli azionisti.
Ma i tempi duri potrebbero essere appena iniziati. Secondo Ruchir Sharma di Morgan Stanley in agguato c’è la bolla del debito cinese. Per continuare a crescere nonostante la crisi globale, sostiene l’analista,negli ultimi anni la Cina ha fatto ricorso al debito. Che, tra pubblico e privato, ha superato il 200 per cento del Pil. I soli investimenti fissi tra il 2002 e il 2011 sono aumentati del 13,5 per cento all’anno, un tasso mai sostenuto da una nazione di grandi dimensioni. Pechino dice ora di voler ridurre le spese. Ma l’effetto potrebbe essere devastante. In base alle previsioni del Fondo monetario internazionale, un calo della crescita degli investimenti fissi dal 13,5 al 4,5 per cento porterebbe i prezzi di alcune commodity a diminuire di quasi un quinto. Ecco perché tutti aspettano con ansia l’autunno, quando i vertici del partito comunista cinese annunceranno il piano quinquennale.