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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

FACCIAMOLO STRANO

Eh già, già, sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua...». La macchina si ferma in via di Campo Marzio, inchioda davanti all’auletta dei gruppi parlamentari, la portiera si spalanca, dentro si sente la canzone di Vasco Rossi a tutto volume, c’è il segretario Pier Luigi Bersani che intona a squarciagola le parole dell’amato cantautore prima di infilarsi nella riunione dei deputati Pd. Quasi un programma politico: « Ci vuole abilità, il freddo quando arriva poi va via, il tempo di inventarsi un’altra diavoleria...». Eh già, Bersani si sente ancora qua, nonostante un inizio legislatura da fine del mondo, o quasi, come la terra da cui proviene il latino-americano Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco. In una strettoia maledettamente avventurosa, perché i numeri del Senato non autorizzano a sognare (il centrosinistra ha 123 seggi con il Pd a 107, il centrodestra Pdl più Lega 117, il Movimento 5 Stelle 54, la lista Monti 19). Nel Triangolo delle Bermude in cui il governo del Pd rischia di essere inghiottito: Silvio Berlusconi pronto a trascinare il suo popolo in piazza contro le toghe politicizzate, sai che novità, il premier Mario Monti, sempre più incompreso nel suo ruolo di salvatore della patria e sempre più offeso, perfino con l’inquilino del Quirinale che lo ha proposto e protetto per un anno e mezzo, il ciclone Movimento 5 Stelle che sbanda nelle prime prove parlamentari ma che fuori dal Palazzo continua a volare nei sondaggi e a far paura ai partiti tradizionali.
«Non c’è niente da cambiare, proprio niente che non va», canta Vasco Rossi. E anche Bersani ripete che non esiste nessun piano B, il candidato a Palazzo Chigi è uno solo, lui. Ma oddio che non ci sia niente da cambiare non sembra. Da giorni, in vista dell’incarico di formare il governo, nel Pd, perfino tra i più fidati collaboratori del segretario, circolano scenari alternativi che fanno tesoro della lezione tratta dal primo giro di tavolo della legislatura, le elezioni dei presidenti di Camera e Senato. Fino alla sera prima del voto i predestinati alle alte cariche istituzionali erano i due capigruppo uscenti, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, eminentissimi e reverendissimi cardinali della Curia di largo del Nazareno. Nella notte il gioco è cambiato e sono spuntati gli outsider: Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, appena eletta nelle liste di Nichi Vendola, sullo scranno che fu di Nilde Jotti, e soprattutto il magistrato Pietro Grasso sul seggio più alto di Palazzo Madama. Una candidatura che per la prima volta spiazza e divide il monolite grillino tra falchi e colombe, tra lacrime, urla, minacce di scomunica, riappacificazioni e 137 preziosissimi voti, più di dieci oltre il previsto.
Per conquistare la fiducia impossibile serve una squadra ministeriale fin du monde. Un governo Finimondo. Modello Bergoglio, l’anziano cardinale argentino che con la sua elezione imprevedibile ha chiuso uno dei conclavi più drammatici della storia della Chiesa: pescare la carta a sorpresa, metterla sul tavolo per sparigliare il gioco altrui e sbloccare l’impasse. Metodo Grasso: l’esordiente che scala la vetta. Affidarsi a un tecnico nel senso classico, come sarebbe il direttore generale di Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni, candidato nel 2011 alla successione di Mario Draghi in via Nazionale e bloccato dall’ostilità di Giulio Tremonti. Oppure, dopo la delusione di Monti e dei suoi professori, competenti ma troppo distanti dalla società, provare con un governo civico, vaga definizione che sembra fatta apposta per tentare di captare la benevolenza dei senatori-cittadini di Grillo. Sì, ma chi sarà il Francesco della politica italiana? A chi sarà concessa la laica fumata bianca di Palazzo Chigi? «Il mio futuro? È a giovedì», ha risposto con una battuta il ministro Fabrizio Barca a chi gli chiedeva di un suo possibile nuovo (e più elevato) incarico governativo. Il ministro della Coesione territoriale, in effetti, giovedì 21 marzo è stato di nuovo in visita nelle zone terremotate dell’Aquila per mettere i bollini agli edifici del centro storico che andranno ricostruiti dopo il sisma del 2009. Non è la prima volta: mesi fa viaggiò in incognito per l’Abruzzo tutto il giorno sui pullman dei pendolari, facendosi trovare all’alba alla fermata di Balsorano, invitato da un gruppo di studenti universitari a vedere le condizioni pietose in cui si trovano a muoversi. Più che sobrio, francescano. E dire che il suo curriculum (Pci, Banca d’Italia, Mit di Boston, direttore generale del ministero dell’Economia con Tremonti) è tutto tranne che quello di un outsider. Importa poco, perché al pari di Grasso, Barca è un commis di lungo corso ma assoluto debuttante in politica, in corsa per il nuovo governo. Che lo sappia bene è fuori discussione: solitamente disponibile con i giornalisti, da un paio di mesi ha smesso di rilasciare interviste politiche. Sta preparando per il prossimo 18 aprile un convegno dell’associazione Etic∑a e economia dedicato al padre Luciano, importante dirigente del Pci scomparso a novembre, che potrebbe diventare la sua prima uscita: il tema scelto, infatti, è una riflessione sull’impegno politico. Ha già fatto circolare qualche appunto sulle caratteristiche che potrebbe avere un suo ingresso in campo: si è parlato di lui come di un possibile segretario del Pd, ma Barca è soprattutto un uomo di governo che non ha mai rinunciato alla sua identità di sinistra. E agli amici negli ultimi giorni chiede a bruciapelo: «Meglio una fine spaventosa o uno spavento senza fine?». Di fronte alla reazione un po’ sconcertata degli interlocutori spiega: «Se lo è domandato Paolo Becchi, il filosofo che interpreta Grillo. E io me lo chiedo con lui», sorride Barca.
Anche il professor Stefano Rodotà nelle ultime settimane ha diradato i suoi interventi pubblici, dopo la mobilitazione della Rete a suo favore, candidato al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano, ma anche alla guida di un governo fuori dai partiti. Tifo scatenato su Twitter, attestati di stima, ma nella lista degli ipotetici ministri di largo del Nazareno il suo nome c’è davvero: Bersani non dimentica che insieme ad altri intellettuali Rodotà ha firmato un appello al voto per la coalizione progressista prima delle elezioni. Nel suo caso il rinnovamento non sarebbe generazionale, il 30 maggio compirà ottant’anni, ma l’ex garante della Privacy rappresenta i movimenti che si sono battuti negli anni scorsi a favore dei beni comuni, ad esempio in occasione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. E si è dimostrato tra i più attenti a cogliere i segnali di novità nel Movimento 5 Stelle. Difficile per i grillini mantenersi equidistanti di fronte a un nome così.
Ancora ben coperto, ma tra i nomi certi in corsa per un governo civico, è il 53enne Graziano Delrio, sindaco Pd di Reggio Emilia, presidente dell’Anci, l’associazione che rappresenta i comuni italiani, in prima linea a protestare contro il patto di stabilità e i tagli dei governi Berlusconi e Monti. Profilo perfetto per i tempi (cattolico, medico con esperienze internazionali, nove figli, barba francescana), è entrato in politica in consiglio comunale e nel 2004 è diventato il primo sindaco non proveniente dal Pci della città rossa per eccellenza. Alle recenti primarie per il candidato premier del centrosinistra si è schierato per Matteo Renzi, in questi mesi si è ritagliato un ruolo da mediatore tra il sindaco di Firenze e la segreteria Bersani, grazie a un rapporto privilegiato con il presidente dell’Emilia Vasco Errani, il regista delle mosse bersaniane. «Sì, Graziano sarebbe un nome spendibile per un governo tecnico-politico», conferma il suo amico Matteo Richetti, neo-deputato di Modena, leader della pattuglia dei quaranta deputati renziani eletti il 25 febbraio. Un altro gruppo di neofiti di Montecitorio che si muove con accortezza nella scacchiera del governo che verrà e nel Pd, corteggiati e annusati dagli altri emergenti del partito, la corrente dei Giovani Turchi di Matteo Orfini, Andrea Orlando e Stefano Fassina, il cane sciolto Pippo Civati, sensibilissimo a intercettare e rilanciare gli umori profondi dell’ala giovane dei gruppi parlamentari. T/q, trentenni-quarantenni di prima nomina, che in comune hanno la volontà di giocarsi la partita, di non lasciare che il Parlamento venga sciolto senza provare una carta di riserva, di non immolarsi sul nome di Bersani. Fino alle elezioni, giovani bersaniani e renziani hanno incarnato visioni opposte del partito, ma in pochi giorni di legislatura i muri sono già caduti. «Dobbiamo mettere da parte le vecchie divisioni e unirci. Se non ora quando?», si chiede la new entry Marco Marchetti, 35 anni, deputato di Pesaro bersaniano, barba, sciarpa e orecchino. Il primo segnale di rivolta degli eterogenei t/q del Pd è arrivata, per paradosso, quando si è trattato di votare sul nome di uno dei deputati più giovani, il lucano Roberto Speranza, classe 1979, lanciato da Bersani come capogruppo alla Camera. Bersani si era mobilitato in prima persona. Il fedelissimo Miro Fiammenghi, il consigliere regionale emiliano amico del cuore del leader che si muove nelle occasioni più delicate, ha chiamato uno a uno i deputati esordienti con una disposizione secca: «Dobbiamo lavorare per Speranza». Doveva servire a suscitare gli entusiasmi dei suoi coetanei, invece il malumore si è espresso nel voto segreto con le schede bianche, un terzo di voti in meno per il giovane capogruppo. Civati non lo ho votato, dichiarando in pubblico il dissenso sul metodo, il rinnovamento pilotato dall’alto. I renziani giurano invece di averlo appoggiato, «Speranza è il candidato di Pier Luigi, noi stiamo con Bersani, il tentativo è il suo», spiega Richetti, ma già si preparano alla fase successiva, in caso di gara a vuoto del leader.
«Bersani è il punto di partenza necessario», spiega il neo-capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda, con i suoi 70 anni rappresenta una riserva di esperienza tra tanti protagonisti alla loro prima volta, toccherà a lui guidare le truppe sul fronte più caldo a Palazzo Madama. «È la legislatura più difficile del dopoguerra», sospira. «Al Senato non sappiamo neppure chi fa parte della maggioranza e chi dell’opposizione: anche le commissioni in questa situazione sono destinate all’ingovernabilità». E nel florilegio di ipotesi, nomi improbabili per tutte le cariche, da Palazzo Chigi al Quirinale, c’è la possibilità concreta che alla fine l’ansia di cambiamento produca un governo di minoranza con la lista Monti in coalizione con Pd e vendoliani e l’appoggio determinante dei senatori della Lega, il partito più terrorizzato dall’idea che un fallimento di Bersani riporti in tempi rapidi a nuove elezioni. E c’è chi vede nel sostegno della Lega un segnale da parte del Pdl: un tacito via libera dei berlusconiani per far iniziare la legislatura, eleggere un presidente della Repubblica non sgradito, il vero obiettivo del Cavaliere, e rimandare la resa dei conti ai mesi successivi. Dopo tante rivoluzioni annunciate sarebbe un ritorno a schemi antichi: da Rodotà a Calderoli. «Ci vuole fantasia, e allora che si fa?», si chiede Vasco Rossi nella sua canzone. Bersani, sulla macchina che lo porta verso il Colle, se lo domanda anche lui.