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 2013  marzo 20 Mercoledì calendario

La Stampa: Massimo Numa, Marco Accossato, Marco Neirotti CASO MUSY: UN UOMO IN CELLA E TANTI MISTERI - Sono le 7,30 del 21 marzo 2012

La Stampa: Massimo Numa, Marco Accossato, Marco Neirotti CASO MUSY: UN UOMO IN CELLA E TANTI MISTERI - Sono le 7,30 del 21 marzo 2012. L’avvocato torinese Alberto Musy, 49 anni, sta uscendo dal fabbricato d’epoca di via Barbaroux 35, nel centro storico, per accompagnare in auto due delle sue figlie a scuola. Poi torna a casa. Sono le 7,50. Parcheggia la sua Renault in una via poco distante dal portone. Un testimone lo vede ancora alla guida e lo saluta. Musy viene ripreso dalla videocamere di sicurezza mentre si avvicina al 35. Mancano pochi minuti alle 8. Nel cortile c’è un uomo ad attenderlo. Indossa un trench verde scuro, indossa un casco semi-integrale Acerbis modello Nano bianco e nero; una mascherina da chirurgo o da verniciatore copre il resto del viso; ha il bavero alzato e una sciarpa. Nella mano sinistra trattiene una scatola di cartone, chiusa con dei lacci e un giornale ripiegato. Entrato con uno stratagemma: ha suonato il citofono di un vicino di Musy, che abita al quinto piano, con la scusa di consegnare un pacco. Alle 8,05 l’avvocato apre il portone, entra nel cortile e vede l’uomo con il casco vicino alla porta delle cantine. Forse gli chiede qualcosa, ma dalla tasca del trench spunta un revolver 357 Smith & Wesson. Cinque spari, quattro a segno. Alle 8,07 Musy, che tenta di difendersi dal killer, colpito alla schiena, alle braccia, in una spalla e alla testa, vive i suoi ultimi cinque minuti di coscienza. L’assassino si allontana indisturbato. Riesce a dire poche parole ai primi soccorritori, i vicini: «Che tempi....forse voleva rapinarmi...». Alla moglie Angelica: «Mi hanno seguito con un motorino...». Entra subito in coma e non si riprenderà più. Adesso è ricoverato in un istituto nei dintorni di Torino. L’uomo con il casco non perde la calma. Esce dal 35, sempre con la scatola in bilico sulla mano, la sagoma dell’arma visibile nella tasca laterale dell’impermeabile. Nel cortile, dove ci sono le macchie di sangue e poche altre tracce, ci sono il capo della mobile, Luigi Silipo e il capo della sezione Omicidi, Luigi Mitola. Pensosi e taciturni, circondati dagli investigatori della Scientifica. Con loro il procuratore Giancarlo Caselli e il pm Roberto Furlan. Il giorno dopo è carico di una strana tensione: le immagini sembrano inutili. Il volto del killer è sempre coperto. Viene analizzato il traffico telefonico dei cellulari che l’avvocato usa abitualmente. Non emerge niente. Sono acquisite le memorie dei suoi pc, alla ricerca di una traccia qualsiasi, di un movente. Niente. Viene istituita una squadra speciale, 10 detective che lavorano solo sul caso. Silipo e Mitola decidono di partire da zero. Primo, analizzare il traffico telefonico passato dalla celle del centro. Un lavoro spaventoso, milioni di dati da valutare. Poi centinaia di intercettazioni, legate alle persone che facevano parte dell’entourage dell’avvocato. Un politico rompe il cerchio di omertà. Siamo nell’autunno 2012. È il primo a fare il nome di Francesco Furchì. Costui ha 50 anni, è nato a Ricadi, in Calabria, emigra a Torino alla fine degli Anni ’80. Fonda l’associazione Magna Grecia, alla fine unica fonte di reddito. È in crisi nera. Solo una persona stimata come Musy potrebbe salvarlo dalla rovina. Non ha più un solo cent. È l’inizio del 2011. Un docente universitario, Pierluigi Monateri lo presenta all’avvocato. Furchì inizia a tempestare Musy di richieste. Un aiuto per l’esame di diritto privato della figlia; un appoggio per far vincere un concorso a Palermo al figlio dell’ex ministro Salvo Andò; la richiesta di finanziamenti per una società ferroviaria, deciso a sistemarsi nel consiglio di amministrazione. Poi una collocazione di rilievo nelle liste Udc dove Musy nel 2011 era candidato come sindaco. Non ottiene nulla. La radice dell’odio, secondo i pm, sarebbe qui. Furchì tenterebbe di costruirsi un alibi, un finto trasloco nella sede dell’associazione. Alle 7,25 la cella telefonica di corso Siccardi 11, in centro, aggancia una sua telefonata ai traslocatori. Loro testimoniano di averlo incrociato sì, ma solo per pochi istanti. Poi sparisce. Il gip convalida l’arresto e il Riesame respinge l’istanza di scarcerazione dei difensori, Giancarlo Pittelli e Mariarosa Ferrara. Faranno ricorso in Cassazione: «Non c’è una sola prova, solo suggestioni, deduzioni. E indizi fragili». In carcere Furchì è sereno. Cammina avanti e indietro nella cella. In preda all’amnesia. Massimo Numa "DA ALLORA ALBERTO E’ IN COMA TUTTI I GIORNI VADO A TROVARLO PER DARGLI UNA CAREZZA" - «Dopo un anno in coma vegetativo l’organismo trova un proprio equilibrio», dice il dottor Antonio De Tanti, il medico che segue Alberto Musy durante il suo ricovero in una struttura alle porte di Torino. Signora Angelica, anche la rabbia e la paura, dopo un anno, trovano un loro equilibrio? Quali sono le condizioni di suo marito? «Vado tutti i giorni da lui. Quand’era ricoverato fuori Piemonte era più complicato: riuscivo a vederlo solo nei weekend, perché le mie quattro figlie gli altri giorni vanno a scuola ed era difficile organizzarsi. Ma ora è più semplice stargli accanto». Un anno dopo, quali sono le speranze? «Non si è mai risvegliato. Mai aperto gli occhi: l’altro giorno mi sembrava muovesse leggermente le ciglia, ma le palpebre sono sempre rimaste chiuse. Però non ha il viso di un malato, non sembra sofferente come si può immaginare. È persino un po’ colorito, pare dorma». Dipende ancora dalle macchine, come quando era in rianimazione alle Molinette? «No, ora respira autonomamente. E non ha più tubi che lo circondano. Ha soltanto una cannula tracheale che serve per liberarlo dal muco riducendo il pericolo di infezioni, e la Peg, il sondino che lo alimenta direttamente nello stomaco». Di che assistenza ha bisogno? «La principale sollecitazione che possiamo dargli è quella emotiva: stargli vicino, parlargli, accarezzarlo, fargli sentire ad esempio la musica che gli piaceva. Per il resto ha solo bisogno che lo aiutino a prevenire le possibili complicazioni: girarlo per evitare le piaghe, lavarlo, reidratarlo quando è necessario. Tutte le mattine, tranne il sabato e la domenica, lo siedono un po’ su una carrozzina. Per fortuna non è così rigido come altri nelle sue condizioni, ma è comunque sottoposto a sedute di fisioterapia». Pensa percepisca, in qualche modo, la vostra vicinanza? «Non possiamo saperlo». Avete quattro figlie, la più piccola ha tre anni, la maggiore è adolescente: che cosa sanno esattamente delle condizioni di papà? «Esattamente tutto. Abbiamo detto loro ogni cosa. Gradualmente, con le parole giuste: prima dell’agguato, poi del ricovero, infine del coma vegetativo. E non abbiamo letto alcun giornale quando qualcuno, alla ricerca di un movente possibile, sosteneva addirittura che Alberto ed io stessimo per separarci. Sanno che papà non esce mai dalla sua camera, e sanno che se vogliono sapere qualcosa devono chiederlo. Ma chiederlo a me. È giusto che siano informate di tutto, non vorrei che fra trent’anni mi rimproverassero di averle lasciate all’oscuro». Recentemente è stata celebrata una messa per suo marito. C’erano anche le bambine... «Sì, ma noi non andiamo tristi alla messa come fanno certi cristiani. Andiamo con gioia, perché, ho spiegato alle mie figlie, “una preghiera può aiutare papà”». Come riescono a sopportare questa presenza-assenza? «Loro vengono con me a trovarlo. Gli fanno sentire le loro voci, lo accarezzano, hanno registrato su un cd la sigla di “Phineas and Ferb” che piaceva molto anche ad Alberto. Cercano un contatto. Poi, a turno, stanno un po’ da sole con lui e gli raccontano ciò che vogliono». Le hanno mai chiesto se papà si risveglierà? «Certo. Ho detto loro che non sappiamo dove va a finire questa storia, ma “voi avete due gambe, come le ha lui, anche se adesso non può utilizzarle. Dovete continuare a portare in giro i vostri sogni, sulle vostre gambe, proprio come ha fatto papà fino al giorno dell’esecuzione”. L’ho proprio chiamata così, con le bambine: esecuzione. Perché questa è la nostra storia, ed è giusto che la sappiano». Marco Accossato IL DRAMMA DELLE ESISTENZE SOSPESE - Le braccia distese sul lenzuolo, la nuca adagiata sul cuscino, occhi immobili, sul volto le carezze dei parenti. In risposta la fissità del silenzio. Che succede sotto quei capelli? Un sonno per sempre o una muta e consapevole prigionia, impotente a rispondere agli stimoli? È il mistero dello «stato vegetativo». Non ci sono cifre certe, i convegni muovono l’onda fra 3.000 e 3.500 casi in Italia. Circa 300 mila persone ogni anno entrano in coma, più di un terzo tornano indenni, altri con danni senza appello, qualcuno transitando nel mare fermo dei corpi vivi, capaci di battito cardiaco e respiro spontanei ma senza dialogo con il mondo. Il coma. Incomincia tutto da questo buio improvviso, dopo incidenti, malattie, intossicazioni che possono compromettere corteccia cerebrale e talamo ma anche il tronco encefalico. Entriamo sotto le luci artificiali delle Terapie intensive, fra tubi e macchinari dai suoni ritmici o d’allarme. Un tempo si cedeva rapidi alla morte, poi la ventilazione forzata ha alzato la sopravvivenza. Il professor Marcello Massimini, neurofisiologo all’Università di Milano: «Da quella invenzione del danese Bjorn Ibsen, che nel 1952 fronteggiò un’epidemia di poliomielite con studenti che manualmente insufflavano aria nei polmoni dei pazienti, si è spostato un confine che per millenni era stato considerato immodificabile: quello della morte, che si è spostata dal cuore al cervello. Mentre altri confini si sono confusi: quelli della coscienza». La morte cerebrale e gli espianti d’organo: «La diagnosi di morte cerebrale è molto più sicura di quella di morte cardiaca. Di fatto gli esami indicano una sorta di decapitazione seppur senza tracce visibili». Ma quando non c’è quella devastazione, i pazienti dopo qualche settimana possono riaprire gli occhi. Alcuni riprendono immediatamente la capacità di comunicare a gesti e parole la propria coscienza. Ma altri possono rimanere in uno stato di non responsività. In questi casi può essere molto difficile vedere la coscienza dall’esterno. Un classico esempio sono i pazienti locked-in: completamente coscienti ma completamente paralizzati. Fort u n a t a m e n t e questi soggetti possono riprendere a comunicare con gli occhi. Molti ricorderanno il libro «Lo scafandro e la farfalla» (Ponte alle Grazie) «scritto» da Jean-Dominique Bauby esprimendo il mondo interiore con il battito delle ciglia. Ancora più difficili da diagnosticare » sono i malati in stato di «coscienza minima». Spiega Massimini: «Non sono in alcun modo in grado di comunicare, però manifestano, anche solo occasionalmente, segni di attività motoria non automatica». Un esempio: «Colui che, in una condizione di non responsività, di tanto in tanto fissa e segue con lo sguardo parenti e medici. Non possiamo sapere cosa prova ma sappiamo che può recuperare anche dopo molti anni, soprattutto se sottoposto a protocolli di riabilitazione intensiva. Da qui l’importanza di una diagnosi approfondita». Dalla totale immobilità invoca aiuto il protagonista del terribile e delicato romanzo di Maurizio Assalto «Se verrà domani» (Cairo): gli preparano una dolce fine mentre lui tutto percepisce. Cambiamo di nuovo stanza. Quella del mistero ancora da illuminare: stato vegetativo, la completa mancanza di segni di coscienza in un soggetto che ha gli occhi aperti. Siamo certi che la coscienza sia davvero assente in tutti questi pazienti? «L’errore diagnostico tra stato vegetativo e minima coscienza rappresenta un grave problema clinico ed etico posto dalla neurologia contemporanea». Come valutiamo la presenza di coscienza? «Tipicamente chiediamo al paziente di aprire la bocca, stringere il pugno e così via. Non avviene nulla? L’assenza di prova non è necessariamente prova di assenza: perché il paziente potrebbe essere cosciente ma paralizzato oppure semplicemente incapace di comprendere i comandi», dice il neurofisiologo: «E’ dunque necessario sviluppare metodiche più sensibili per riconoscere i segni della coscienza, al di là della capacità di un soggetto di interagire con l ’ a m b i e n t e . Dobbiamo sviluppare nuovi strumenti di misura per vedere la luce della coscienza direttamente nel cervello. Un compito non facile, ma non impossibile. Queste famiglie ci impongono il dovere etico di raffinare la diagnosi. Non si aspettano miracoli, si aspettano che ci dedichiamo a leggere sempre meglio realtà nascoste». Marco Neirotti