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 2013  marzo 21 Giovedì calendario

Obama deve colmare la distanza che, sull’Iran, lo separa da Netanyahu. Secondo Daniel Serwer, docente di risoluzione dei conflitti alla Johns Hopkins University, il senso del viaggio in Israele è tutto qui

Obama deve colmare la distanza che, sull’Iran, lo separa da Netanyahu. Secondo Daniel Serwer, docente di risoluzione dei conflitti alla Johns Hopkins University, il senso del viaggio in Israele è tutto qui. Poi, a latere, ci sono i palestinesi, l’esito delle rivolte arabe, la Siria, di cui è venuto a parlare a Roma in un forum dell’Istituto Affari Internazionali. A che punto è il dossier Iran? «Teheran sta frenando sull’immediata produzione di uranio per evitare l’attacco israelo-americano raggiungendo però una posizione così avanzata da poter in extremis accelerare l’arricchimento. Obama conta ancora sulla diplomazia, vorrebbe che l’Iran accettasse il tetto del 5% di uranio usabile nei reattori. In caso contrario c’è l’opzione militare, ma la decisione è degli Usa. Colpendo da solo, Israele non riuscirebbe a distruggere tutto e spingerebbe l’Iran a finire in fretta il programma». Come impatta su tutto ciò la Siria? «Obama, a differenza di Netanyahu, non s’interessa molto alla Siria. Per Israele è diverso: più Assad resiste e più si rafforzano gli islamisti, specie al confine con il Golan. Ma mentre Israele ha le mani legate, gli Stati Uniti discutono. Pare che solo le armi chimiche possano scuotere Washington. L’esitazione di Obama però non c’entra con Damasco: il presidente guarda a Mosca, partner indispensabile per l’Iran ma anche per il ritiro delle sue truppe da Kabul». La Siria può ancora essere salvata? «Il rischio oggi è il collasso dello stato. Nessuno lo vuole, certamente non l’opposizione che mantiene una forte identità nazionale e aborre lo sfascio seguito al post Saddam. Ma la guerra crea imprevisti e tra i combattenti stranieri, le tensioni sunniti-sciiti, gli jihadisti di al Nusra provenienti dall’Iraq, il risveglio kurdo e l’attivismo turco, l’ipotesi di un crollo della struttura è verosimile. L’unica chance è il piano di Ginevra sponsorizzato da Usa e Russia: Assad che cede i poteri a un governo provvisorio scelto da regime e opposizione». E l’ipotesi di armare i ribelli? «Plausibile. Ma - prova l’Afghanistan - con le armi non compri crediti politici futuri. L’idea che si fa strada in America è evitare la no fly zone libica che impone un continuo presidio ma bombardare una tantum la forza aerea siriana e magari distruggere l’artiglieria per proteggere il governo a interim». L’indipendenza americana dal petrolio ridimensionerà il Medioriente? «Gli Stati Uniti ci lavorano. Ma attenzione: il prezzo del petrolio è globale e una crisi mediorientale nuocerebbe sempre all’America. Il nodo è lo stretto di Hormuz. Washington preferisce tenerlo aperto ignorando il fatto che, per dire, se la Cina lo usa di più potrebbe occuparsi di pattugliarlo. Ma insistere sul transito marittimo del greggio anziché costruire oleodotti è un errore». I palestinesi, infine. Il tour di Obama ignorerà davvero i colloqui di pace? «Non credo che li ignorerà del tutto. Ma gli israeliani come i palestinesi hanno preso la via unilaterale e Obama, dopo il fallimento dei predecessori, non si cimenterà troppo. Il problema resta lì e, sebbene le rivolte arabe abbiano portato alla ribalta altre priorità, riemergerà quando i futuri leader regionali dovranno rispondere a un’opinione pubblica più vivace ma sempre filo-palestinese».