Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 19 Martedì calendario

«MANDATO PIENO O ESPLORATIVO? A DECIDERLO SARA’ IL PRESIDENTE» —

Se esiste davvero il rischio di un «ingorgo istituzionale» — nascita del governo ed elezione del presidente della Repubblica — c’è da tenere d’occhio la prassi fin qui seguita dai capi dello Stato per conferire l’incarico per la formazione di un nuovo esecutivo. Un adempimento che, almeno sulla carta, prevede tre strade: incarico esplorativo affidato a una alta carica dello Stato (ci sono i precedenti Iotti e Marini), preincarico o incarico pieno conferito a un leader politico.
«Le regole in materia sono abbastanza flessibili», osserva il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida, che riconosce a Giorgio Napolitano «la più ampia facoltà di manovra» anche in una situazione in cui «al Senato non c’è una maggioranza». Visti però i numeri del Pd, spiega il professor di diritto parlamentare Paolo Armaroli, «l’incarico esplorativo sarebbe una "carineria" di Napolitano nei confronti di Bersani. Dico questo perché l’incarico pieno rischierebbe di trasformarsi in effetto boomerang per il leader del Pd».
Però, dice il presidente emerito della Consulta Carlo Alberto Capotosti, non si può parlare di incarico esplorativo dato a un leader politico: «Sì, perché l’incarico esplorativo si affida ad una alta carica dello Stato che agisce in nome e per conto del presidente. Quindi, quello conferito Bersani sarebbe tecnicamente un preincarico: l’incaricato prima compie il giro di orizzonte e poi accetta».
Il secondo snodo dell’«ingorgo istituzionale» sta nella tempistica stabilita dall’articolo 85 della Costituzione. Secondo il quale «30 giorni prima che scada il termine» del settennato «il presidente della Camera convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo presidente della Repubblica». Per cui, osserva Armaroli, «il 15 di aprile, cioè un mese prima della scadenza del mandato di Napolitano, sapremo solo quale sarà la data di convocazione della seduta comune che avverrà nei giorni successivi». A quel punto — con o senza un governo che abbia già ricevuto la fiducia — sarà necessario attendere un «congruo lasso di tempo» per consentire ai Consigli regionali di eleggere i rappresentanti da inviare a Roma: e probabilmente, visto che il 21 aprile si vota per il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, si arriverebbe a fine aprile o ai primi di maggio per compiere tutti gli adempimenti necessari al fine di convocare il Parlamento in seduta comune. Quanto ci vorrà poi per la fumata bianca (nel ’71, per Giovanni Leone, ci vollero 23 votazioni), solo un mago può saperlo. Quindi, osservano quasi in coro Armaroli, Capotosti e Onida «sta nell’ordine delle cose che Napolitano resti al suo posto fino all’ultimo giorno». Al limite, azzarda Armaroli, «Napolitano potrebbe, con le dimissioni, anticipare di qualche giorno il giuramento del suo successore se la nascita del governo risultasse difficile». A quel punto, conclude Capotosti, «le elezioni a giugno sarebbero comunque tecnicamente impossibili». E poi c’è da chiedersi: «Il nuovo presidente, come primo atto, manderebbe a casa il Parlamento che lo ha appena eletto?».
Dino Martirano