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 2013  marzo 03 Domenica calendario

VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL GRANDE LABIRINTO FISCALE

Cominciamo dall’inizio: «E Giuseppe promulgò una legge sulla terra d’Egitto, fino a questo giorno, che il Faraone dovesse avere la quinta parte» (Genesi, 47,26). Le tasse, insomma, dovevano essere il 20% del reddito. Oggi la "pressione fiscale" (imposte e contributi in percentuale del reddito della nazione) è dappertutto molto più alta, in genere dal 35 al 50 per cento.
Se guardiamo alle tasse come un "prezzo" - in effetti sono il prezzo da pagare quando "compriamo" i servizi pubblici - è facile vedere che nel bilancio familiare questo "acquisto" è forse il maggiore. Rivaleggia con la rata del mutuo, quando c’è. Si comprende quidi come la questione fiscale sia forse la più scottante questione della convivenza civile, che diventa lacerante quando il cittadino-contribuente soffre su ambedue i fronti: paga troppo e non riceve abbastanza.
Perché le tasse - non solo in Italia, come si vede in tabella - sono così alte? Perché la gente non ha bisogno solo di mangiare, vestirsi e divertirsi (beni privati) ma ha anche di beni pubblici (difesa, istruzione, sanità, ponti, strade...). E poi la gente ha (giustamente) richiesto altri servizi, primo fra tutti la "rete di sicurezza" sociale, dalle pensioni ai sussidi di disoccupazione all’assistenza agli indigenti. Tutto questo costa e, dato che le risorse per far funzionare l’intera baracca non piovono dal cielo, dev’essere la stessa "gente" a pagare questi servizi con tasse, imposte, contributi... Grosso modo, la metà o giù di lì del reddito di un Paese va a pagare i servizi resi dall’apparato pubblico. A questo punto la domanda d’obbligo è: chi paga? Bisogna vedere come è distribuito questo enorme "prezzo".
Le tasse sono necessarie. E non solo, in negativo («due cose nella vita sono certe, la morte e le tasse»). Anche in positivo, perché i servizi pubblici sono quelli che incorniciano la convivenza civile, ci fanno sentire parte di una comunità. Uno scrittore americano, Oliver Wendell Homes, disse: «Mi piace pagare le tasse, perché così facendo compro civiltà». Lo Stato, che deve far pagare le tasse, si è sempre reso conto che la cosa è tuttavia dolorosa, e quindi ha cercato di sminuzzare il carico fiscale su tanti "imponibili": paghiamo le tasse quando riscuotiamo lo stipendio, quando compriamo la benzina, il latte, la maglietta o la casa, quando teniamo un conto in banca, giochiamo al lotto, chiediamo il passaporto ecc.
Come viene distribuito questo carico fiscale? In Italia ne parla addirittura la Costituzione: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53). Cosa vuol dire? Vuol dire che chi è ricco deve pagare più di chi è povero. Se tutti pagano, mettiamo, il 20% del reddito (come gli egiziani al Faraone) è ovvio che il 20% del reddito di un ricco sarà di più del 20% del reddito di un povero. Ma la «progressività» va oltre: vuol dire, per esempio, che il ricco deve pagare il 35% e il povero il 15% del reddito. Insomma, la «aliquota» (percentuale d’imposta da pagare) cresce al crescere del reddito. Possono essere progressive anche le imposte sui consumi, come l’Iva (di cui abbiamo parlato il 4 novembre): per esempio, alcuni beni sono esenti, altri (come gli alimentari) sono tassati con aliquote basse, altri ancora - beni di lusso - con aliquote più alte.
L’evasione fiscale - occultare i propri redditi per sottrarsi al pagamento delle imposte - è quindi un crimine. Gli evasori ricevono i benefici dei servizi pubblici ma si rifiutano di pagarli. Un po’ come se andassero al supermercato e rubassero dagli scaffali. E di questi "furti" fanno le spese i contribuenti onesti: le tasse che pagano dovranno essere più alte per tener conto del fatto che parte delle tasse non viene pagata da chi dovrebbe pagarla.
Allora, le tasse in Italia sono troppo alte? L’elevatezza del carico tributario va rapportata alla qualità dei servizi che si ricevono in cambio. Sondaggi presso le famiglie hanno portato a sorprendenti risposte. Una maggioranza degli italiani dice che sarebbe disposta a pagare più tasse (o quanto meno a non lamentarsi di quello che già paga) pur di avere servizi pubblici migliori. Il problema delle tasse è quindi essenzialmente il problema della spesa pubblica. Ne abbiamo parlato l’8 luglio dell’anno scorso: quel che conta è la qualità della spesa. I Paesi che sono riusciti meglio di altri a coniugare crescita ed equità, come i Paesi scandinavi, sono quelli in cui sono elevate le tasse ed è elevata la qualità dei servizi pubblici.

Fabrizio Galimberti

OMBRA, TÈ, ALCOL E RELIGIONI: QUANDO LA FANTASIA DEL FISCO È SENZA LIMITI –
Cominciamo dall’inizio: «E Giuseppe promulgò una legge sulla terra d’Egitto, fino a questo giorno, che il Faraone dovesse avere la quinta parte» (Genesi, 47,26). Le tasse, insomma, dovevano essere il 20% del reddito. Oggi la "pressione fiscale" (imposte e contributi in percentuale del reddito della nazione) è dappertutto molto più alta, in genere dal 35 al 50 per cento.
Se guardiamo alle tasse come un "prezzo" - in effetti sono il prezzo da pagare quando "compriamo" i servizi pubblici - è facile vedere che nel bilancio familiare questo "acquisto" è forse il maggiore. Rivaleggia con la rata del mutuo, quando c’è. Si comprende quidi come la questione fiscale sia forse la più scottante questione della convivenza civile, che diventa lacerante quando il cittadino-contribuente soffre su ambedue i fronti: paga troppo e non riceve abbastanza.
Perché le tasse - non solo in Italia, come si vede in tabella - sono così alte? Perché la gente non ha bisogno solo di mangiare, vestirsi e divertirsi (beni privati) ma ha anche di beni pubblici (difesa, istruzione, sanità, ponti, strade...). E poi la gente ha (giustamente) richiesto altri servizi, primo fra tutti la "rete di sicurezza" sociale, dalle pensioni ai sussidi di disoccupazione all’assistenza agli indigenti. Tutto questo costa e, dato che le risorse per far funzionare l’intera baracca non piovono dal cielo, dev’essere la stessa "gente" a pagare questi servizi con tasse, imposte, contributi... Grosso modo, la metà o giù di lì del reddito di un Paese va a pagare i servizi resi dall’apparato pubblico. A questo punto la domanda d’obbligo è: chi paga? Bisogna vedere come è distribuito questo enorme "prezzo".
Le tasse sono necessarie. E non solo, in negativo («due cose nella vita sono certe, la morte e le tasse»). Anche in positivo, perché i servizi pubblici sono quelli che incorniciano la convivenza civile, ci fanno sentire parte di una comunità. Uno scrittore americano, Oliver Wendell Homes, disse: «Mi piace pagare le tasse, perché così facendo compro civiltà». Lo Stato, che deve far pagare le tasse, si è sempre reso conto che la cosa è tuttavia dolorosa, e quindi ha cercato di sminuzzare il carico fiscale su tanti "imponibili": paghiamo le tasse quando riscuotiamo lo stipendio, quando compriamo la benzina, il latte, la maglietta o la casa, quando teniamo un conto in banca, giochiamo al lotto, chiediamo il passaporto ecc.
Come viene distribuito questo carico fiscale? In Italia ne parla addirittura la Costituzione: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53). Cosa vuol dire? Vuol dire che chi è ricco deve pagare più di chi è povero. Se tutti pagano, mettiamo, il 20% del reddito (come gli egiziani al Faraone) è ovvio che il 20% del reddito di un ricco sarà di più del 20% del reddito di un povero. Ma la «progressività» va oltre: vuol dire, per esempio, che il ricco deve pagare il 35% e il povero il 15% del reddito. Insomma, la «aliquota» (percentuale d’imposta da pagare) cresce al crescere del reddito. Possono essere progressive anche le imposte sui consumi, come l’Iva (di cui abbiamo parlato il 4 novembre): per esempio, alcuni beni sono esenti, altri (come gli alimentari) sono tassati con aliquote basse, altri ancora - beni di lusso - con aliquote più alte.
L’evasione fiscale - occultare i propri redditi per sottrarsi al pagamento delle imposte - è quindi un crimine. Gli evasori ricevono i benefici dei servizi pubblici ma si rifiutano di pagarli. Un po’ come se andassero al supermercato e rubassero dagli scaffali. E di questi "furti" fanno le spese i contribuenti onesti: le tasse che pagano dovranno essere più alte per tener conto del fatto che parte delle tasse non viene pagata da chi dovrebbe pagarla.
Allora, le tasse in Italia sono troppo alte? L’elevatezza del carico tributario va rapportata alla qualità dei servizi che si ricevono in cambio. Sondaggi presso le famiglie hanno portato a sorprendenti risposte. Una maggioranza degli italiani dice che sarebbe disposta a pagare più tasse (o quanto meno a non lamentarsi di quello che già paga) pur di avere servizi pubblici migliori. Il problema delle tasse è quindi essenzialmente il problema della spesa pubblica. Ne abbiamo parlato l’8 luglio dell’anno scorso: quel che conta è la qualità della spesa. I Paesi che sono riusciti meglio di altri a coniugare crescita ed equità, come i Paesi scandinavi, sono quelli in cui sono elevate le tasse ed è elevata la qualità dei servizi pubblici.

OMBRA, TÈ, ALCOL E RELIGIONI: QUANDO LA FANTASIA DEL FISCO È SENZA LIMITI –
Aveva ragione Benjamin Franklin («In questo mondo non c’è nulla di sicuro, tranne la morte e le tasse») ad associare morte e tasse: due eventi vissuti come luttuosi e inevitabili, salvo elusioni varie, perfettamente legali, che ti sottraggono all’etichetta di evasore, ma che Dante avrebbe comunque messo tra i reprobi. In un periodo in cui il Parlamento ha varato pesanti manovre di bilancio basate su aggravi di tasse e d’imposte per far quadrare i conti, può essere utile ricordare come la fantasia del fisco non abbia conosciuto limiti sin dai tempi antichi.
Oggi ci possiamo lamentare della tassa sull’ombra, (se una tenda di un locale fa ombra sul suolo pubblico, è considerata come un’occupazione del suolo ed è soggetta a una tassa) o di quella per la raccolta di funghi, senza considerare le più comuni tasse sulle bionde (le sigarette), e sugli alcolici. Se andiamo indietro nel tempo, troviamo la "decima", la più famosa tassa dell’antichità: nella Bibbia è l’offerta al tempio di una decima parte dei prodotti del suolo e del gregge secondo un’idea di riconoscenza a Dio. A Roma l’agricoltore versava la decima parte del raccolto all’erario; la Chiesa cristiana imponeva ai suoi membri il pagamento della decima calcolata sulla base delle proprie entrate. Sembra strano, ma oggi in Germania esiste proprio una tassa sull’appartenenza religiosa, la Kirchensteuer: varia secondo aliquote regionali ed è obbligatoria per ebrei, cattolici e protestanti.
Ad Atene vigeva una sorta di patrimoniale ante litteram: i contribuenti più ricchi finanziavano le spese straordinarie dello Stato, soprattutto in caso di guerra, ma anche in occasione di liturgie religiose o dei giochi olimpici. Era un’imposta percentuale sul patrimonio cui nessun ricco poteva sottrarsi. Sotto Caligola fu istituita una tassa sulla prostituzione che arrivava al 20% del guadagno stabilito. Dalla tassa sulle saline di Ostia, istituita per pagare i soldati delle guerre puniche, deriva il vocabolo "salario". E che dire della famosa frase "pecunia non olet" con la quale l’imperatore Vespasiano rispose al figlio che lo rimproverava per aver messo una tassa sull’urina che i tintori raccoglievano nei bagni pubblici?
Le tasse scatenarono anche una guerra: per esempio, la tassa sul tè e il conseguente "Boston Tea Party". Nulla a che fare con i Tea Party nati in America nel 2008, espressione super-conservatrice di una parte dell’elettorato americano (anche questi comunque hanno a che fare con le tasse: TEA è acronimo di "Taxed Enough Already": "già abbastanza tassati"). Il Boston Tea Party fu la protesta dei coloni americani (siamo nel 1773), contro il "Tea Act" del governo inglese che sostanzialmente mirava a imporre la sua volontà alle colonie in materia di tassazione.
Gli inglesi, così come i nostri governanti, non tennero conto delle sagge parole di Svetonio: «Boni pastoris esse tondere pecus non deglubere» (il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle). Per la pace sociale c’è bisogno di una buona soffice lana, non mista alla pelle: se no la pecora soffre, deperisce e non può più fornire la lana... Comunque c’è un modo sicuro per non pagare le tasse: abitare in New Mexico e avere compiuto 100 anni; il vostro reddito non sarà tassato e avrete anche allungato la vita.

Claudia Galimberti