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 2013  marzo 03 Domenica calendario

UN EDITORE MANTIENE 5 FIGLI STAMPANDO LIBRI IN 50 COPIE

Giuseppe D’Ambro­sio Ange­lillo è di­ventato editore, anche di se stesso, per necessità. Le sue necessità si chiamano Lisa, 44 anni, la moglie, Michele, 14, Tommy, 12, Angelico, 9, Maria, 7, e Antonia, 5, i figli. Potendo scegliere, avrebbe fatto lo scrittore a tempo pieno. Addita una pila di libri a propria firma, «saranno più di 100, ma meno di 200»: gli ultimi, Rivoluzione , «romanzo sul 1977», e Il professore di filosofia , «gioie e dolori di un docente nella disastrata scuola se­condaria di oggi», contano rispettiva­mente 635 e 569 pagine. Ma ha anche scritto qualcosa come 5.500 pagine su Fëdor Dostoevskij, nove volumi che hanno richiesto un lustro di lavoro.
Giuseppe D’Ambrosio Angelillo - di qui in avanti solo Gda, per non sottrar­re spazio a una storia di vita omerica- è un editore-artigiano, studioso di filo­sofia greca e tedesca, profondo cono­scitore dei poeti russi e dei romanzieri americani, che spazia da Fedro a Sgar­bi, passando per Petrarca, Machiavel­li, Spinoza, Shakespeare, Manzoni, Apollinaire, Rimbaud, Wilde, Proust, Tolstoj, Kafka, Collodi, Cechov, Dic­kens, Nietzsche, Rilke, Melville, Bau­delaire, Pessoa, García Lorca. Gda fa surf su letteratura, filosofia e poesia d’ogni epoca.E lo fa a modo suo,con ti­rature che non superano le 50 o 100 co­pie. Si disegna da solo le copertine, più spesso le dipinge ad acquerello, a una a una, intendo. Rilega i libri a mano. Stende di proprio pugno, con una calli­grafia ornata, le opere più brevi oppu­re affida al tipografo le più lunghe, deci­dendo però per ognuna quale caratte­re usare. Trascrive i manoscritti di alcu­ni libri con una Olivetti Lettera 22 e ri­produce le pagine così ottenute. In­somma, fa di ciascun volume un’ope­ra unica. Che poi va a vendere per stra­da, «a 5 euro, perché la considero una missione», anche quando il prezzo di copertina, già basso di suo, sarebbe di 10, 12, 14 o 16 euro, «quello vale nelle librerie Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli o per le vendite online su Google Play, Amazon, Ibs; chiedo 10 euro solo per i libri a ma­no, anche se su Ebay li ho visti in vendita a 90». Ha appena pubblicato Mi ri­tiro dai miracoli , «poe­metto imperfetto » di Vin­cenzo Mollica, un lavoro da amanuense con i dise­gn­i del giornalista che se­gue cultura e spettacoli per il Tg1 : «Doveva darlo alla Einaudi, ma ha prefe­rito me perché voleva un libro artistico».
Prima di diventare il proprietario­factotum di Acquaviva, casa editrice di nicchia con sede a Milano chiamata co­sì in onore del paese natale, Acquaviva delle Fonti, Gda è stato contadino nel­la sua Puglia e ad Arles, in Provenza; pe­scatore di cozze a Lampedusa; fornaio ad Assago; imbianchino a Londra; por­tapizze a Firenze; rilegatore a Venezia, insegnante d’italiano a Berlino; lava­piatti alla mensa della Breda di Sesto San Giovanni. Poi operaio in una fon­deria di Affori dove si producevano va­sche da bagno: «Cinquanta gradi. La­voravo in mutande. Ogni mezz’ora un mio compagno si toglieva la canottie­ra, strizzava per terra il sudore e urla­va: “Dove sono i sindacalisti? Perché non vengono mai a misurare il nostro grado di sfruttamento?”». Poi, conse­guita la laurea in filosofia alla Statale, supplente in vari licei lombardi, fino a quando non fu licenziato perché non dava i voti e s’era messo in testa di far studiare ai suoi allievi un solo filosofo, Arthur Schopenhauer, e una sola ope­ra del medesimo, Il mondo come volon­tà e rappresentazione : «“Questo meto­do­didattico non si usa neppure all’uni­versità!”, strepitò la preside. Da allora non è cambiato nulla. Al liceo Tito Li­vio vogliono cacciare Giovanni Trista­no, docente d’italiano nella classe del mio primogenito, perché insegna ai ra­gazzi come si fa a scrivere racconti».
Gda è nato il 7 febbraio di 57 anni fa. «Quella fu l’unica volta in cui Acquavi­va delle Fonti restò sotto due metri di neve, Mia Martini ci ha fatto pure una canzone, La nevicata del ’56 ». I ge­nitori, Domenico e Ma­ria, contadini, avendo quattro bocche da sfama­re e dovendo stare tutto il giorno nei campi, lo affi­darono ai dirimpettai Mi­chele e Antonietta Ange­lillo, una coppia senza fi­gli: «Lei faceva la sarta in casa e quindi poteva accu­dirmi. A 12 anni fui adot­tato legalmente e questo spiega il doppio cognome». Nell’au­tunno 1976 approdò a Milano. «Era la prima volta. Non conoscevo nessuno. Mio padre mi aveva dato 70.000 lire. Ne spesi 7.000 solo per il treno. Scesi al­la Centrale alle 9.30. Alle 12 avevo già trovato casa e lavoro: autista di notte».
Non credo che fosse partito dalla Puglia per fare l’autista al Nord. «Avevo il mito di Milano.Ce l’ho anco­ra. Tutto ciò che di nuovo s’è visto in Ita­lia, è nato qui: il futurismo, il sociali­smo, il fascismo, il berlusconismo. Quello che si pensa e che si fa, prima lo si pensa e lo si fa a Milano. È la capitale concreta del Paese. Salvatore Quasi­modo vinse il Nobel a Milano, Luigi Pi­randello e Giovanni Verga divennero scrittori a Milano, Alda Merini era di Milano. Di mio avrei fatto il commesso di libreria. Presentai il curriculum alla Feltrinelli di piazza Duomo, ma fui re­spinto perché sapevo troppe cose».
Lei mi ricorda un apolide.
«In effetti persi un portafoglio ad Ate­ne con dentro 150 dracme. In compen­so ne trovai uno a Grado che contene­va 100.000 lire ma non lo restituii. Quei soldi mi servivano per continuare la va­canza c­on una sventola che era identi­ca a Betty Page, non so se ha presente».
Si definisce «poeta di strada».
«È una dizione che tutti mi hanno co­piato. Ho pubblicato due antologie in­titolate così, Poeti di strada . Batto le vie di Brera. La seconda domenica del mese mi trova in piazza Diaz, l’ultima domenica sul Naviglio Grande. Mar­cello Dell’Utri, il maggior bibliofilo che esista in Italia, è mio cliente. Ogni anno organizza il Salone del libro usa­to e non manca mai d’invitarmi».
Invece i critici letterari la snobbano.
«I critici sono provinciali prezzolati, non capiscono nulla di cultura. Farei un’eccezione solo per Aldo Busi, che però è uno scrittore. Il peggiore è Pietro Citati, per anni recensore della Repub­blica . È stato il mio giornale fin dal pri­mo numero, 14 gennaio 1976. Lo scelsi per la testata, pensando a Platone, si può essere più scemi? Oggi ci leggo co­se allucinanti quattro giorni su sette».
Quando scrisse il suo primo libro?
«A 17 anni. Era una raccolta di poesie,
Dietro un mucchio di assurdo , auto­pubblicata col ciclostile. Non so quan­ti ne sono usciti da allora. Ho seguito il consiglio di Ernest Hemingway: se ti metti a contarli, smetti di scrivere».
Più di 100, anche se meno di 200, mi sembrano tantissimi . «Perché? Sono passati 40 anni, eh. Il farmacista non alza la saracinesca ogni mattina? Be’, io scrivo. Nulla dies sine linea , nessun giorno senza una li­nea, come diceva il pittore Apelle. Ap­pena alzato, tiro subito fuori due o tre racconti da quello che ho sognato».
Quello che ho sognato, io non me lo ricordo quasi mai.
«C’è una tecnica: apri gli occhi e non pensi ad altro che ai sogni fatti. La mat­tina due ore se ne vanno così. Altre due ore di scrittura dopo cena. Poi taglio la corda. Gli artisti a Milano escono la se­ra, come le chiocciole. Di giorno incon­tri la norma: cravatte e scarpe lucide. Di notte conosci gli impresentabili».
È dura mantenere cinque figli pub­blicando libri in 50 copie? «Aggiunga me e mia moglie. Lisa mi aiu­ta nel mio lavoro. Di cognome fa Paa­suke. Viene da Tallin, Estonia. La co­nobbi nel 1993 a Berlino. Stava lì con un coro per uno spettacolo. Ci scambiam­mo gli indirizzi e cominciammo a scri­verci. Quando mi raggiunse a Milano, fu respinta alla frontiera:problemi di vi­sti con l’Urss. Allora la seguii sul volo di ritorno. Rimanemmo chiusi per tre giorni dentro l’aeroporto di Francoforte, come Tom Hanks in The termi­nal .
C’era la luna piena».
Stavamo parlando di pane e companatico.
«Cinque figli ti danno un’energia inimmagina­bile. Ti svegli e sai che de­vi cominciare a correre per loro. Prima di sposar­mi, non avevo di questi pensieri. Nel 1987 rimasi per tre mesi senza un sol­do­ e scoprii che potevo vi­vere lo stesso. Un’amica insisteva per offrirmi 300.000 lire, sosteneva che mi sarebbero servite. Le rifiutai. E non mi accadde nulla di male».
Vada a dirlo alle famiglie in crisi.
«I veri bisogni sono minimi. Quando studiavo filosofia medievale all’univer­sità, decisi di imitare i monaci che di­giunavano per poter vedere Dio. Non lo vidi, però stetti 27 giorni senza man­giare. I primi tre ti viene un mal di testa atroce, dal quarto giorno cammini a un metro da terra. Aravo il campo di mio padre in 24 ore anziché in 48. Ero in per­fetta autosufficienza. Un mio amico medico mi disse che avrei potuto rinun­ciare senza danni anche al cappuccino che, per non essere da meno di Marco Pannella, mi concedevo al mattino. “Ef­fetto placebo, non ti serve”, sentenziò. Era vero. Dopo un mese potevi suona­re il mio petto come se fosse una fisar­monica: ogni costola un tasto. Da allo­ra non ho più pranzato a mezzogiorno.
Comunque i greci dicevano che chi si occupa d’arte non deve preoccuparsi: gli daranno da mangiare gli dei. Mila­no ha un cuore grande. Non ha mai la­sciato un artista senza pagnotta».
Alda Merini ce l’ha lasciata eccome.
«Una volta fermò per strada Enrico Cuccia. “Ho fame”, stese la mano. “Buon segno”, mormorò gelido il bu­rattinaio di Mediobanca, tirando drit­to. Alda vendeva le sue poesie nel bar Chimera di via Cicco Simonetta a 1.000 lire l’una per comprarsi un panino. Io gliene acquistavo due o tre al colpo. Ma la sua non era una povertà subita: era una scelta di vita. La condizione uma­na è di miseria. Vuol sapere perché?».
Sì.
«Perché si muore. Ero amicissimo di Alda. Mi ha fatto pubblicare 36 suoi li­bri. La Einaudi, che la teneva sotto con­tratto, voleva impedirglielo. “Se osate toccare Giuseppe, non vi darò più nul­la”, minacciò, e fui lasciato in pace. Quando era malata, chiamava me. Nel suo ultimo anno andavo da lei qua­si tutti i giorni, le facevo le punture. È la più grande poetessa del mondo. Non vinse il Nobel solo perché gli editori ita­liani sono pirla. Fu premiata la polac­ca Wislawa Szymborska. Ma chi è? La Merini ne vale tre, di Szymborska. Ave­va dentro di sé Dante Alighieri, Cecco Angiolieri, Pierpaolo Pasolini».
Ma era davvero da manicomio o so­no da manicomio quelli che ce la rinchiusero per dieci anni?
«Non era affatto pazza. Quando appre­se ­che una sua ex compagna s’era am­mazzata nell’ospedale psichiatrico, stette malissimo e fu lì lì per imitarla. Allora telefonò al fotografo Giuliano Grittini e gli disse: “Vieni a casa mia”. Grittini la trovò nuda nel letto e lei pre­tese che la ritraesse in quello stato. So­lo così riuscì a superare la tentazione del suicidio. Si nasce nudi, si muore nu­di e soprattutto si vive nudi. La nudità per Alda corrispondeva alla verità. Il poeta ha la verità per vocazione, an­che contro se stesso. Alda ce l’aveva».
Mi dia una definizione di Gda.
«Sono un umanista. Mi sento come gli ebrei, estraneo a chiunque, senza ter­ra. Però faccia caso: i popoli antichi so­no spariti tutti, sumeri, babilonesi, egi­zi, ittiti, assiri, fenici, tutti tranne gli ebrei, che resistono con la loro Torah e le loro tradizioni. E poi mi considero un super politico, cioè al di sopra della politica. In Italia abbiamo avuto due gi­ganti, Giovanni Gentile e Antonio Gramsci, ma nessuno se li fila perché il primo era fascista e il secondo comuni­sta. Eppure Gentile ha scritto l’unica opera di fi­losofia su Karl Marx, tal­mente bella che fu elogia­ta da Lenin».
Che cos’è un libro?
«Una presenza spiritua­le. È un’anima che sta lì, dentro casa tua».
Il 58% degli italiani senz’anima: mai letto un libro in vita loro. «Non è vero. Queste so­no falsità diffuse da edito­ri avidi, abituati a piange­re il morto. Con la crisi le vendite di pro­sciutto sono calate del 20%, quelle di li­bri solo dell’8%. Gli italiani leggono molto e amano i poeti. E come potreb­be essere altrimenti? Hanno inventa­tol’umanesimo. Il New Yorker ha pub­blicato un inte­ro numero per chieder­si che mondo sarebbe stato senza l’Ita­lia. E s’è dato la risposta: un mondo molto povero. Ogni italiano ha la sua lingua, ha la sua poesia e ha il suo parti­to. Ogni italiano è un partito unico».
Un popolo di egocentrici.
«No, di creativi, di artisti. Per questo l’umanità si ricorderà in eterno di noi».
(638. Continua)