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 2013  marzo 03 Domenica calendario

I MEDICI DEI MANOSCRITTI

Un antifonario gregoriano del 1200 e una Regola di San Benedetto dell’anno Mille. I due volumi sono preziosissimi e a riportarli all’antico splendore è stato il laboratorio di restauro del libro dell’abbazia di Novalesa, nel quale le pagine in pergamena delle due opere sono state curate una per una fino a uscirne quasi com’erano mille anni fa, comprese le imperfezioni, come un buco causato forse da una spina conficcatasi nella pelle dell’animale da cui la pergamena è stata ottenuta.
I frati dell’abbazia di Novalesa sono soltanto sette (ma nella prima metà del Seicento andava anche peggio, il monastero era retto da un solo monaco) e tuttavia da veri benedettini riescono a svolgere, e anche bene, molte attività. Mandare avanti il laboratorio di restauro del libro è una di quelle a cui tengono di più, nonostante possano contare su un solo dipendente fisso, Valerio Capra, giovane artigiano di grande valore, formatosi nei corsi professionali della Regione Piemonte. Capra, che è l’unico laico ad avere libero accesso al monastero, è un vero mago nel tenere vivi i libri antichi — a quelli contemporanei, trentamila volumi, ci pensa padre Giuseppe, il bibliotecario del convento — e quando ne prende uno tra le mani non lo tocca, ma lo palpa, come farebbe un vero medico con un paziente e poi decide quale terapia adottare, se irrobustire i capitelli di testa o rinforzare le indorsature, oppure l’ancoraggio dei «nervi» (si chiamano così i supporti di cucitura sul dorso, tipici della legatura occidentale, mentre in quella bizantina, copta, araba e cinese i fascicoli sono uniti tra loro da semplici cuciture con ago e filo). Spesso per un restauro di pregio, oltre a queste operazioni, occorre eseguirne altre, non meno delicate, sulle coperture dei volumi che, soprattutto se codici o manoscritti, sono in pelle decorata con foglie d’oro e d’argento (o in altri tessuti, persino ricamati).

Il laboratorio di restauro del libro è la macchina del tempo di questa abbazia fondata da un nobile franco, Abbone (si chiama così anche l’abate benedettino de Il nome della rosa di Umberto Eco), il 30 gennaio del 726, dedicata ai santi Pietro e Andrea di Novalesa, ma soprattutto eretta a presidio del valico del Moncenisio, tra il regno dei Franchi e quello dei Longobardi. Entrarvi significa essere d’un colpo scaraventati indietro di millecinquecento anni, respirare una spiritualità ricca di ossigeno come il vento delle montagne che circondano la Val Cenischia e la Val di Susa, vette che sbarrano, sì, quell’orizzonte lungo che offre il mare, ma in compenso ne aprono un altro che si spinge ancora più lontano, verso l’alto, verso il cielo infinito, dove abitano Dio e gli angeli o forse soltanto l’Ignoto. Fu allora, millecinquecento anni fa, che Benedetto da Norcia concepì la sua Regola. Settantrè capitoletti noti ai più attraverso il sintetico imperativo ora et labora, che prima d’ogni altra cosa si premurano di stabilire quali siano i veri monaci: non i sarabaiti (termine d’origine egiziana per indicare quei gruppi di monaci senza una guida e senza uno «statuto»), «specie tristissima, non hanno altra legge che l’appagamento dei propri gusti, poiché tutto ciò che preferiscono lo chiamano santo e ciò che non vogliono lo ritengono illecito»; e nemmeno i girovaghi, «sempre vagabondi e instabili, schiavi delle loro voglie e dei piaceri della gola: in tutto più abominevoli dei sarabaiti». Potrebbero essere veri monaci gli anacoreti e gli eremiti, che però «sono già divenuti esperti a combattere contro il demonio» e non hanno più bisogno dell’aiuto dei confratelli. Restano i cenobiti, che per San Benedetto sono «la specie migliore», poiché vivono insieme in un cenobio, «militando sotto una regola e un abate».
L’abbazia di Novalesa, punto di riferimento del potere e della cultura dei Franchi, tanto da diventare scenario del racconto di un non dimostrato soggiorno di Carlo Magno e del suo esercito nel 773, prima della guerra contro il re longobardo Desiderio, visse il suo periodo di maggiore splendore nel IX secolo, con Eldrado, un abate eletto autonomamente dai monaci e non più nominato dall’imperatore o soggetto al suo gradimento preventivo. Anche se questa conquista non significava che l’autonomia politica dell’abbazia e dei vasti territori a essa soggetti, al di qua e al di là delle Alpi, fosse tale da far venir meno il dovere degli abitanti di fornire al re le prestazioni militari richieste e quello della stessa abbazia di mantenersi nel solco della politica culturale tracciato dai carolingi.
«Eldrado — scrive Gian Carlo Alessio, curatore della Cronaca di Novalesa (Einaudi), opera di un monaco anonimo del XII secolo — era un esponente della seconda generazione carolingia soprattutto preoccupato, in ossequio alle prescrizioni che re Carlo aveva da tempo emanato, della correttezza testuale dei libri sacri». Fu però un grande abate. E divenne anche santo. A lui è intitolata la cappella che racchiude il tesoro artistico di maggior pregio dell’intero complesso abbaziale, gli affreschi della seconda metà dell’XI secolo che raccontano la vita e le opere di San Nicola di Myra (meglio noto come San Nicola di Bari) e dello stesso Sant’Eldrado.
Proprio sotto questa chiesetta di quarantacinque metri quadrati, secondo il progetto originario, dovevano passare i binari della Tav, che, spiega padre Giuseppe, avrebbero compromesso sia la cappella e gli affreschi, sia la salute dei monaci e della gente, «dal momento che sarebbero state perforate le due montagne che si ergono sulle sponde del fiume Cenischia, l’una piena di uranio e l’altra piena di amianto». La parentesi sull’alta velocità ferroviaria è necessaria, non solo per smentire i luoghi comuni di un no pregiudiziale all’opera («Si può fare, basta farla bene. Per esempio cambiando il tracciato, oppure potenziando la già esistente Torino-Lione»), ma anche perché va ricordato che i primi e più costanti oppositori al «progetto così com’è» (non al progetto in sé) sono stati i frati francescani di Susa e tutti i parroci della Val di Susa che, come la stragrande maggioranza della popolazione, non hanno nulla a che fare con chi cavalca la protesta a fini propagandistici o punta a provocare disordini.
Qui, davanti al più antico ciclo pittorico occidentale di un santo orientale (Nicola), ritratto da una fine mano anonima di alta scuola romanica con evidenti influssi bizantini, e di fronte agli altri due anonimi che raffigurano l’uno la vita e le opere di Eldrado e l’altro il Cristo Pantocratore affiancato dagli arcangeli Michele e Gabriele, che riempiono l’abside, qui, dicevamo, vi è un concentrato d’arte che ha risollevato le sorti dell’abbazia di Novalesa dopo la sua distruzione — avvenuta agli inizi del X secolo a opera dei Saraceni, piombati in Val Cenischia dai loro rifugi in Provenza — e ne ha impedito la definitiva decadenza. Un declino cominciato con quell’assalto e mai più arrestatosi, nemmeno quando i Cistercensi sostituirono i Benedettini (dal 1646 fino alla fine del secolo XVIII), e che culminò nel 1855 quando i Savoia, con la «legge Rattazzi», soppressero gli ordini religiosi.

L’abbazia di Novalesa è tornata a vivere soltanto in tempi recenti, nel 1972, quando la Provincia di Torino l’ha acquisita al proprio patrimonio e l’ha riaffidata ai monaci benedettini, che oggi si ritrovano nel bellissimo chiostro e pregano nella chiesa abbaziale, in cui — cappella della Santissima Trinità — sono stati recuperati importanti affreschi, dei quali la Lapidazione di Santo Stefano (fine XI secolo) è il più significativo. Dell’abbazia fanno anche parte, oltre a quella di Sant’Eldrado, le tre cappelle di Santa Maria (VIII secolo), San Michele (IX) e San Salvatore (XI). In quest’ultima riposa il «milite ignoto» — un soldato della divisione Alpina Taurinense caduto in Albania —, vittima di quella «guerra nella guerra» che nel Secondo conflitto mondiale le forze armate italiane, abbandonate a se stesse, combatterono nei Balcani. Non è un fuor d’opera, questa tumulazione. Non alla Novalesa, almeno, che da sempre è un luogo in cui la spiritualità ha incrociato l’avventura e la guerra. Un luogo, racconta ancora la Cronaca di Novalesa, in cui era financo possibile che un giullare longobardo rivelasse con una canzone al re dei Franchi, Carlo Magno, quale fosse la via giusta per entrare nel regno d’Italia senza correre alcun rischio e che quella via, da allora, prendesse il nome di via Francorum, o strada Francigena o camino Francés e passasse a indicare le strade che dalla Francia conducevano ai grandi centri di pellegrinaggio, Santiago de Compostela e Roma.
E a chi dunque, se non a un santo con la spada, San Michele Arcangelo, poteva essere dedicata, a pochi chilometri da Novalesa, ad Avigliana, l’imponente abbazia benedettina — oggi retta da due religiosi rosminiani — della Sacra di San Michele?
È questo uno dei più grandi complessi architettonici di epoca romanica in Europa, risalente all’XI secolo e collocato a metà strada tra i grandi centri di culto micaelico di Mont Saint Michel in Normandia e Monte Sant’Angelo sul Gargano, secondo una suggestiva «linea dell’Angelo» che si spinge ancora più a nord — fino a Skelling Michael, in Irlanda — e ancora più a sud — al Monte Carmelo, in Galilea — e per questo continua a essere oggetto delle più svariate interpretazioni mistiche e a scatenarne persino di esoteriche. Ma la gigantesca statua in bronzo della Sacra di San Michele, alta più di cinque metri, opera di Paul De Döss-Moroder, è forse l’unica in cui l’Arcangelo non impugni la spada e la lasci cadere, conficcandola anzi inoffensivamente nella roccia, e a braccia aperte tenda le mani in segno di accoglienza.
Carlo Vulpio