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 2013  marzo 03 Domenica calendario

UN CALCIO ALL’ALZHEIMER

Il tavolo è ricoperto da fotografie in bianco e nero, di grande formato, plastificate e di buona qualità, nonostante alcune siano piuttosto datate. Ci sono portieri senza guanti in tuffo sul pallone, attaccanti impegnati nel tiro decisivo, difensori in scivolata, ma anche diverse riproduzioni statiche di calciatori in posa per il calendario sociale o con la maglia della nazionale.
Ogni dettaglio, anche una panoramica sui gradoni in cemento di un vecchio stadio, può essere quello giusto per riaccendere un ricordo: quando gli occhi lo individuano, propagano una luce fioca e intermittente, di breve durata, ma capace di riscaldare almeno un po’, dentro e anche tutto attorno. In Scozia questo è un fenomeno che si verifica di frequente, grazie al «Football memories project», un’iniziativa in collaborazione con Alzheimer Scotland che ha come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita dei malati di demenza senile. Come? Attraverso sessioni (se possibile) di 90 minuti, più 15 di intervallo, in cui il pallone rimbalza tra i ricordi, nel tentativo di toccare i tasti meno incrostati dal tempo, grazie a un apparato iconografico che spazia soprattutto dagli anni Quaranta agli anni Settanta del calcio scozzese, in modo da stimolare le reminiscenze degli anziani che hanno vissuto in prima persona le diverse ere calcistiche. Anche attraverso contribuiti radiofonici dell’epoca (i video sono invece sconsigliati) o addirittura la riproduzione del tipico sferragliare metallico dei tornelli.
Il progetto, com’è ovvio, non avanza pretese terapeutiche, ma in questi anni ha piacevolmente stupito medici e ricercatori. In tutta la Scozia sono quaranta i gruppi attivi, che danno conforto a circa duecento malati nei centri di cura specializzati, ma anche nelle parrocchie o nelle sedi messe a disposizione dalle società di calcio. Il motore dell’iniziativa è rappresentato dai volontari, incaricati del lato «calcistico» e dell’organizzazione del materiale più adatto da utilizzare, sempre accompagnati da assistenti professionisti che aiutano gli anziani a riscoprire le gioie di una passione, come quella del tifo per la propria squadra, sopita dal tempo e dall’incedere della malattia.
«Football memories», che ha tra i suoi ambasciatori anche Sir Alex Ferguson, scozzese e allenatore del Manchester United da una vita, ha sede accanto all’ingresso del museo del calcio, ospitato nella pancia di Hampden Park, l’impianto «neutrale» di Glasgow (città divisa in modo netto tra i cattolici del Celtic Park e i protestanti che sostengono i decaduti Rangers a Ibrox Park) dove gioca tutte le sue gare interne la Scozia. Da queste parti, dove lo sport più amato è quasi una religione e il culto della memoria (e della memorialistica) sportiva è molto diffuso, si può quindi dare una pallonata quotidiana all’Alzheimer nel cuore dello stadio nazionale, con la federazione come partner e la «Post code lottery» come principale finanziatore, a testimonianza che mettere la testa seriamente nel pallone può avere una ricaduta sociale significativa.

Tutto è cominciato a Falkirk, cittadina a metà strada tra Edimburgo e Glasgow: qui Michael White, storico della squadra di calcio locale in cui ha giocato negli ultimi anni di carriera lo stesso Ferguson, organizzava incontri per ravvivare il senso di appartenenza al club. «Poi mi è stato chiesto di andare a parlare di calcio nel centro per malati di Alzheimer a Stenhousemuir, dove ho incontrato un gruppo ristretto di anziani e subito sono rimasto affascinato dalla loro capacità di ricomporre la memoria dei vecchi tempi, in cui la maggior parte di loro era tifoso praticante: alcuni non avrebbero saputo dire cosa avevano mangiato per colazione, ma erano in grado di riconoscere molti protagonisti delle fotografie che avevo portato con me. Altri rammentavano anche le condizioni atmosferiche di certe partite, disputate sotto la pioggia o la neve. Perché l’esperienza del calcio di allora non si riduce a riconoscere un determinato giocatore in una fotografia, ma significa ricreare dentro di sé un ventaglio di esperienze, dal viaggio per lo stadio al pranzo in comitiva, fino ovviamente al risultato della partita, commentato e rivissuto attraverso radio e giornali anche nei giorni seguenti».
Tra i vecchi appassionati di football seduti attorno al tavolo (che nell’intervallo spalmano sul pane il Bovril, un estratto di manzo caro a chi andava allo stadio, un po’ come il Caffé Borghetti da noi...), ce n’è uno che se ne sta un po’ in disparte, quasi riluttante a partecipare a quella rimpatriata improvvisata.
Poi Bill Corbett si fa coraggio e dimostra che sul calcio degli anni Quaranta e Cinquanta per lui non ci sono zone d’ombra: «Solo dopo sono venuto a sapere che era stato un ottimo difensore centrale del Celtic e della nazionale scozzese — spiega White, ricordando con un velo di commozione quel primo incontro, oggi che Bill non c’è più —. Nel 1942 giocò in nazionale contro l’Inghilterra a Wembley e venne eletto "migliore in campo". L’ultima volta che ci siamo visti, dopo aver provato a ricordare i bei tempi, scherzando sui grandi calciatori con cui ha giocato, mi disse che quello che aveva appena vissuto con noi era stato uno dei momenti più belli della sua vita. E quando qualcuno mi chiede se il nostro progetto è in qualche modo efficace, io cito sempre una frase di Bill, rivolta a un ricercatore della Caledonian University di Glasgow: "Guardi questo fazzoletto — disse Corbett allo studioso —, è umido di lacrime, lacrime di gioia"».
Oggi, tra i quaranta gruppi sparsi dalle isole Shetland fino al vallo di Adriano (che potrebbe essere scavalcato presto da due squadre inglesi, Ipswich ed Everton, che hanno preso informazioni) ce ne sono alcuni composti esclusivamente da ex giocatori professionisti, per i quali sono previsti anche incontri singoli, legati ai particolari della loro carriera in campo. Non a caso tra i partner del progetto, che ha superato le diffidenze iniziali della comunità scientifica ed è adesso oggetto di studi anche da parte dell’Università di Barcellona, c’è l’associazione dei calciatori scozzesi. Mentre negli Usa (per il baseball) e in Canada (per l’hockey su ghiaccio) il modello assistenziale potrebbe essere presto riprodotto.
Ovviamente i contributi più entusiasti sono quelli dei familiari, che sanno bene quanto la routine degli incontri, di norma al mattino, e il senso di appartenenza (sviluppato anche attraverso l’utilizzo di felpe dai colori uguali per i partecipanti, come all’interno di una «squadra») siano molto importanti: dall’Alzheimer non si torna indietro, ma ogni tanto avere la sensazione che la degenerazione cerebrale si fermi per un attimo fa bene a tutti, non solo ai malati, alcuni dei quali hanno ripreso a parlare attorno a un tavolo di «Football memories» dopo settimane o mesi di insostenibile silenzio. «Mio marito — spiega Irene Gray — è una persona differente quando esce dalla sua sessione settimanale. È più reattivo e stimolato, nella strada verso casa parla con me e non necessariamente solo di calcio. Questo progetto gli ha ridato un’energia nuova».
L’espressione verbale non è l’unica forma di comunicazione, come dimostra il disegno di David Beckham riprodotto da uno dei partecipanti. Attraverso un percorso non banale: «Nel nostro primo incontro — racconta White — quest’uomo soppesava le fotografie che gli venivano mostrate con occhio critico, riguardo alla luce, alla prospettiva, alla qualità dell’immagine. Gli ho chiesto se fosse stato un fotografo. Mi rispose di no, ma disse che aveva la passione per il disegno e mi ha confermato che avrebbe potuto riprodurre a matita una delle nostre fotografie. La settimana successiva si è ripresentato senza disegni e così anche quella dopo. Un mese dopo il primo approccio ha portato quattro ritratti schizzati a matita, tra cui quello di Beckham, che ho conservato. La moglie mi ha confidato che suo marito, malato di demenza, non disegnava ormai da anni».
Paolo Tomaselli