Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 03 Domenica calendario

LIBERATE WAGNER DAI CANTANTI VESTITI COME BORGHESUCCI

L’eccellente Oro del Reno a Santa Cecilia viene giustamente elogiato anche perché in forma di concerto. Privo, cioè, di cantanti abbigliati come borghesucci ottocenteschi: roba di vent’anni fa. O più recentemente, acconciati con pezze e stracci da mercatino dell’usato, fra spazzature e immondizie come sui marciapiedi accanto al teatro. E magari lo scandaluccio di qualche nudo in palcoscenico, fra i pattumi e i relitti.
E certamente dipende assai dal cantante, far sentire gli sprizzi e sprazzi di Sigfrido quando forgia la spada. Ma per le lunghe e complesse disquisizioni sulla «Tabulatur», nel primo atto dei Maestri Cantori, non serve tanto leggere il libretto subito prima della rappresentazione. E neanche assistere alle pertinaci disquisizioni degli apprendisti, davanti a un altare luminoso, nel più riverito spettacolo di Wieland Wagner. Bastò seguire i testi soprastanti, nelle proiezioni al Maggio Fiorentino.
Riflettendo ancora un po’, diventa naturale chiedersi come mai si saranno rappresentate le scene subacquee nelle prime esecuzioni storiche. Sirene o balene, guizzanti fra scogli da sommozzatori? E ancora più giù giù, il nano o gnomo lascivo Alberich che canta libidinosamente sott’acqua, sarà una roba sottomarina da riprese pionieristiche della Trinacria Film spesata da patrizi palermitani? Magari, con obese fanciulle-fiori in arrivo dal Parsifal, dietro una troupe di fattucchieri diabolici e cigni invasivi?
Un grosso vero guaio, però. Contrariamente a Giove e Giunone che stanno benissimo senza ricorrere a qualche Ermes o Mercurio, Wotan e Fricka invecchiano e deperiscono a vista d’occhio se non si cibano dei pomi d’oro allestiti da Freia stoltamente promessa in dono ai Giganti che costruiscono il Walhalla. E qui i pasticci si intrecciano e sommano. Poiché solo i massimi dèi hanno bisogno dei famosi pomi, dunque appaiono cagionevoli più di altri minori. Ma inoltre, durante la costruzione del Walhalla, Freia malgrado i pomi non diventa vecchia?
Ovviamente Wagner pone qui le basi per tutti i vari crepuscoli successivi. E l’utente potrà ricavarne impressioni di friabilità, precarietà, insicurezza di questi dèi nordici. Mentre nel caso di Giove e Giunone e degli altri, tranquilli?
***
Turbini macabri di veli neri svolazzavano per ogni «renversé» nella Valse di Ravel, alla Scala con Balanchine una sessantina d’anni fa, fra le piroette e i volteggi del suo corpo di ballo così americano e sportivo, ma puntualissimo in quegli smisurati decadentismi asburgici... Adesso, col Fauno di Debussy e il Mugnaio di de Falla e il «Jack in the Box» di Satie — tutti trascritti dagli autori per pianoforti — allietano con Antonio Ballista e Bruno Canino una serata di mezza età all’Aula Magna della Sapienza romana. Tanti capelli bianchi, davanti ai monumentali ceffi affrescati da Mario Sironi.
Molto quattrocentesche, tutte quelle figure imponenti ora ci possono sembrare una sfilata di Pieri della Francesca giganteschi e multipli.
Ma non giovani, benché in un auditorio studentesco. Per lo più, a torso nudo, in dignitose mutande e salviette. Ma erano già così adulti, allora, gli studenti e i giovani?
Una scritta morale o moralistica ci ammonisce dall’alto: IMMORTALIS ERIS SI SAPIAS IUVENIS. E qui, manca una virgola, prima del vocativo? O sarà una traduzione di «Si jeunesse savait», forse? Manca però nel programma una eventuale trascrizione pianistica di Milhaud, «Le boeuf sur le toit», per rallegrarci in questa compiacenza passiva.
***
A proposito, si sentiva raccontare, a Venezia, tanti anni fa, vedendo passare intabarrati i vecchi «Sei» della musica francese, che alla «prima» di una noiosa opera di Milhaud, dopo un primo atto lungo e uggioso Francis Poulenc andò nel palco del collega, già con su il paltò. E gli chiese: «Vous restez?».
Alberto Arbasino