Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 03 Domenica calendario

FINANZIAMENTO PUBBLICO IL TAGLIO DEI RIMBORSI VARREBBE 159 MILIONI

Centocinquantanove milioni di euro. Più altri 68 milioni circa destinati alla quota di «cofinanziamento». Questo è quanto spetta ai partiti come rimborso elettorale per la legislatura che sta per iniziare, quello a cui Beppe Grillo (e anche Matteo Renzi) chiede di rinunciare. E se al lettore sembrano tanti, si consoli pensando che per il periodo 2008-2013 si sono spartiti circa 500 milioni, e che oggi, grazie a una legge un po’ più restrittiva approvata nel luglio scorso sull’onda degli scandali Lusi e Belsito, c’è più selezione nell’accesso ai soldi, e maggiori obblighi di trasparenza sulla gestione.

Le cifre dovrebbero aggirarsi sui 45,8 milioni per il Pd, 42,7 per il Movimento 5 Stelle (che ne avrebbe diritto solo se si dotasse di uno statuto legalmente valido, ma ha già annunciato di non volere quei soldi), 38 per il Pdl, 8 per la lista Monti del Senato e 7 per Lista Civica della Camera, 7,3 per la Lega, 5 per Sel, 1,6 per Fratelli d’Italia, 1,5 l’Udc. Paradossalmente, pur avendo preso meno voti di Fli, la Svp accede a qualche centinaia di migliaia di euro di rimborsi, avendo eletto cinque deputati, e il partito di Fini no.

Le ripartizioni esatte verranno calcolate in estate (la scadenza per l’accredito della prima rata è il 31 luglio), ma è questo l’ordine di grandezza delle cifre a cui avranno diritto in cinque anni i partiti, calcolato dall’agenzia Ansa. Fino a luglio scorso il calcolo era semplice e il «montepremi» una montagna: bastava agguantare un 1% alla Camera (quindi senza avere manco un eletto) o il 5% in una Regione al Senato, e voilà, scattava il rimborso, un euro per ogni voto. Nel 2008, a inizio legislatura, le risorse da spartirsi per un solo anno superavano i cento milioni di euro. E le erogazioni proseguivano pure in caso di fine anticipata della legislatura: per capirci, i partiti hanno continuato a ricevere fondi per la legislatura 2006-2011, benché sia morta e defunta nel 2008, pure quei partiti che nel frattempo si erano sciolti in altre formazioni.

Da luglio, sulla spinta degli scandali sulla gestione a dir poco allegra dei soldi pubblici, con l’approvazione della legge 96, qualcosa è cambiato. Ma quello che è certo, è che i partiti continuano a prendere soldi, in barba a un referendum che, nel 1993, con una maggioranza di oltre il 90%, chiedeva di non dargliene più. I fondi a disposizione sono 15 milioni 925 mila euro per la Camera e altrettanti per il Senato, per ogni anno di legislatura, e vi accede solo chi abbia ottenuto alle elezioni almeno un eletto (per capirci, la lista Ingroia che con la vecchia legge parteciperebbe al riparto, oggi non ne ha diritto). Inoltre, c’è una seconda parte, meno sostanziosa, definita di «cofinanziamento»: vi accede chi abbia ottenuto almeno il 2%, ma a fronte di finanziamenti privati dimostrabili. Per ogni euro ottenuto da persone o enti (con un limite di 10 mila euro), il fondo eroga cinquanta centesimi.

Tecnicamente si tratta di «contributi pubblici per le spese sostenute dai partiti e dai movimenti politici»: denari, insomma, che servono a sostenere i costi dell’attività politica, il pagamento di strutture e personale. Ma sono davvero necessari? Grillo e il suo straordinario exploit senza un soldo dello Stato, non è la dimostrazione che si può fare politica senza denaro pubblico? Nei partiti, all’idea di un taglio netto tremano. «Rischiamo di mettere gente in cassa integrazione», sospira De Poli, segretario amministrativo dell’Udc. E che quei soldi vengano considerati ossigeno irrinunciabile lo ammise anche il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, quando nella primavera dell’anno scorso l’Idv annunciò la rinuncia all’ultima rata della legislatura che sta finendo: impossibile farne a meno, raccontò al «Fatto quotidiano», senza quell’ultima tranche il Partito democratico «non sopravviverebbe». Senza quell’ultima parte di soldi, disse, «i partiti chiuderebbero, sarà una verità impopolare ma qualcuno deve dirla».

Ora però la spinta verso l’abolizione totale non verrà più solo dall’esterno dei Palazzi, dall’opinione pubblica. Dritta nel cuore del Parlamento, sarà portata avanti da quei 162 eletti grillini contrarissimi ai finanziamenti pubblici. E forse i partiti è meglio che comincino ad abituarsi all’idea...