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 2013  marzo 01 Venerdì calendario

LE FOTO DI MODA? COSÌ UN VOYEUR LE HA MESSE A NUDO

[HELMUT NEWTON]

La legge di Newton (Helmut, non Isaac) la formulò lui stesso in una sola lapidaria frase: «Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione». Divertente, vero? Molto dandy. Ma lui la applicò veramente alla sua lunga vita di cattivo ragazzo della fotografia. Con coerenza e metodo rimase fino all’ultimo dei suoi 84 anni nel personaggio del giardiniere dei piaceri proibiti, del voyeur perverso-polimorfo, ma in fondo ingenuo, infantile, ironico, senza colpa e perfino senza pretese. Fedele al cliché che si era sapientemente costruito fin da quando intuì che le signore della buona società non vedevano l’ora di emettere gridolini scandalizzati quando sfogliavano le loro noiose riviste di moda. Nella sua impudica autobiografia, Helmut riuscì perfino a retrodatare la sua magnifica ossessione per gli svestimenti femminili all’età precocissima di quattro anni, quando nella sua cameretta berlinese spiava la sua Kinderfräulein, la sua balia, mentre vestita solo di un paio di mutandine si truccava davanti allo specchio. E pensare che a quell’epoca la mamma lo portava in giro vestito da bambina.
La ricca mostra romana al Palazzo delle Esposizioni, oltre duecento fotografie dai suoi primi tre libri, ci rivela in realtà che il mito Helmut Newton è meno esoterico, meno compatto e più tardivo di quel che si immagina. A 54 anni di età, benché fosse già un famoso e ben pagato fotografo di Vogue, non aveva ancora pubblicato nessuno dei suoi lavori personali, le fantasie messe in scena negli interstizi dei set di moda, le immagini più audaci e libere, quelle che siamo abituati a considerare più «sue». Il suo primo libro uscì solo nel 1974, fu White Women, ma ottenne l’effetto desiderato: una granata. A partire dal titolo, tacciato di razzismo. «Ma quale razzismo» replicò, «è un bellissimo titolo, tantopiù che non c’è neanche una donna nera in tutto il volume...».
Era l’inizio dello stile Newton, sfrontato, senza pudore e senza complessi, non solo nelle immagini. Artista io? «Ho sempre lavorato su commissione». Semmai sono un guardone, «ma tutti i fotografi lo sono e se qualcuno lo nega è un idiota». Intellettuale? «Non c’è nessun messaggio nelle mie foto, non hanno bisogno di spiegazioni». Pornografo?
«Adoro la volgarità, sono attratto dal cattivo gusto». Sempre a lato, sempre sotto le polemiche, le ideologie, le critiche, spiazzando gli attacchi feroci delle femministe: «La prostituzione mi ha sempre affascinato, una delle idee che mi eccitavano di più era la concezione della donna come merce».
Un uomo passato in mezzo alla storia quasi senza accorgersene. Ragazzo non alto ma piacente, sportivo, gran nuotatore, fuggì dalla Germania appena in tempo, nel 1938, con la scritta «Jude», ebreo, stampigliata in viola sul passaporto. Ma nelle sue memorie il nazismo sembra essere soprattutto una seccatura, perfino una provvidenziale congiuntura biografica, perché gli risparmiò un destino di fabbricante di bottoni nell’azienda paterna, e lo fece diventare, da dilettante che era, un fotografo professionista apolide. Una nave lo portò a Singapore, dove lavorò come reporter di strada per lo Straits Times, poi fu deportato per ragioni belliche, lui tedesco in una colonia britannica, in Australia che, da carcere, diventò il suo Paese d’elezione, tanto da fargli rinnegare il cognome originario, che era Neustädter. In Europa tornò solo, a Parigi, quando gli riuscì il gran colpo di farsi scritturare da Audrey Withers, regina di Vogue.
Per la verità, il suo vero Paese d’elezione, il suo continente selvaggio, è stato il corpo femminile. Esplorato con dedizione, costanza, coerenza, sopra e sotto gli abiti. Le sue donne non sono mai nude: sono svestite. Anche quando sono coperte da qualcosa. Come nel dittico strafamoso dei Big Nudes, dove le quattro virago, senza neppure cambiare posa, perdono di colpo i vestiti firmati (restano i tacchi a spillo, senza i quali, per Newton, una donna non è mai davvero nuda).
Guardatele, queste divinità algide. Newton le ha scavate dentro i meandri più riposti e vulnerabili dell’immaginario erotico maschile. Sono davvero le donne che un uomo amerebbe portare a cena fuori? Altro che sensuali, nelle loro corazze di pelle fanno soggezione, quasi paura. Riprese dal basso, fotocamera quasi poggiata sul pavimento, quelle quattro figure statuarie riescono a intimidire il playboy più strafottente. Ha umiliato il corpo femminile, bad boy Newton, o ha celebrato paradossalmente la sua beffarda rivincita? Karl Lagerfeld, lo stilista fotografo che lo conobbe bene, sostiene che le donne di Newton sono astrazioni «pericolose perché contaminano in modo insidioso l’immaginario dei suoi detrattori».
In effetti, la vita e l’opera di quest’uomo sono un fascio di contraddizioni. Il catalogo inquietante dei suoi accessori di scena, presi spesso dal repertorio feticista e sadomaso, e la perfezione del suo vocabolario visuale: «La sola cosa che si può dire per certo delle mie foto è che sono sempre a fuoco». Le sue immagini lungamente progettate e premeditate una per una, e la sua smisurata ammirazione per le foto smandrappate dei paparazzi. La sua imbarazzante fascinazione per personaggi come Leni Riefenstahl, la musa di Hitler, che ragioni biografiche avrebbero dovuto sconsigliargli di incontrare (la sua prima insegnante di fotografia, la bellissima Yva, morì ad Auschwitz). Ma anche la stima e l’amicizia di intellettuali tutt’altro che reazionari come Gabriel García Márquez (che lo presentò a Fidel Castro, epurando per prudenza un paio di foto dall’album da regalare al Comandante...) o James Ballard. Le sue disinvolture erotiche, e il suo amore sincero e ultradecennale per la moglie June Brown, attrice e poi fotografa in proprio con lo pseudonimo di Alice Springs. Il «riconciliato» (lo definì così, in memoriam, il cancelliere socialista Schröder) che dopo una vita d’esilio volle farsi seppellire in Germania, accanto a Marlene Dietrich, mentre un quartetto suonava la Ballata di Mackie Messer dall’Opera da tre soldi di Brecht.
Qual è il vero Newton, se ce n’è uno? Forse l’inventore di un linguaggio fotografico che nessun altro aveva ancora osato nel mondo della fotografia commerciale, che spostava molto in avanti il confine del proibito (a lungo i suoi servizi su Vogue Franco furono vietati su Voglie America) ridando vita a un genere, la foto di moda, che rischiava la stitichezza, e che infatti sarebbe stato, sulla sua scia, invaso dalla scuola furbetta del porno-chic.
L’industria della moda, la pubblicità, la stessa fotografia d’arte gli devono molto più di quanto non si vergognino di riconoscergli. Più di quanto lui stesso non volesse riconoscere a se stesso. O forse no? Di una delle sue immagini più enigmatiche, la vedete in queste pagine, è lui stesso protagonista: in jeans e sneakers come sempre, ma addosso un impermeabile semiaperto, incongruo in uno studio di posa (se non per l’associazione di idee che ispira con l’impermeabile degli esibizionisti), appare nello specchio mentre fotografa la sua modella, ovviamente nuda coi tacchi; intanto appena fuori dal set una June paziente lo guarda lavorare. Sapeva o no di aver realizzato una replica concettualmente perfetta di Las Meninas di Velázquez, il quadro che affascinò Foucault? Come quello, la sua foto ci disorienta confondendo la realtà con lo specchio, il guardone e il guardato, il soggetto e l’oggetto dello sbirciare.
Voleva forse dirci qualcosa? Non lo sapremo mai. Helmut morì da Newton, nel 2004, accasciato da un infarto mentre sfrecciava sulla sua Cadillac nuova di zecca, l’ultima delle sue macchine di lusso, le belle levigate sensuali carrozzerie della sua vita vissuta come se fosse una fotografia, ossia lo sguardo su un’illusione che ci parla della realtà.
Michele Smargiassi