Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 01 Venerdì calendario

DALLA VESTAGLIETTA A 1.000 LIRE A UN MILIARDO DI FATTURATO

Ci sono gesti che dicono tutto. Prendete Elena e Giuseppe Miroglio, 42 e 40 anni. Siamo nell’atrio dell’azienda tessile di famiglia, un miliardo e 42 milioni di euro di fatturato, nel centro di Alba, Piemonte profondo e ancora industriale. Posano per le nostre fotografie. «Dai, aspetta un attimo, hai la cravatta fuori posto»: con l’intimità e la naturalezza che solo una sorella può avere per un fratello, lei lo striglia e gli stringe il nodo per lo scatto. Poi, di fronte al sorriso ironico di lui, fa la mossa di dargli un pugno sulla testa. Allora capisci quanta sinergia può esserci, nel 2013, al vertice di un’impresa dal nome vecchio di oltre un secolo, quando a guidarla ci sono due freschi quarantenni cresciuti uno accanto all’altro con la vocazione imprenditoriale «data un po’ per scontata, in famiglia, da quando eravamo piccoli» (ammettono entrambi, in chiacchierate separate).
E intuisci quanta – e quale, soprattutto – strada è stata fatta in questa storia imprenditoriale italiana da quando il nonno Giuseppe, sedicenne, era andato ad aiutare i genitori Carlo e Angela nel commercio tessile aperto in piazza Duomo. Insomma, da una vetrina della fine dell’800 ai 2.000 negozi monomarca di oggi (con brand come Motivi, Elena Mirò, Oltre, For.me), in 34 Paesi di ogni longitudine. Un percorso che passa attraverso l’industria tessile e quella dell’abbigliamento, e ha portato il gruppo Miroglio a contare 13mila dipendenti e 20 milioni di capi prodotti l’anno, in perfetta sintonia con la distribuzione degli altri gruppi mondiali del retail d’abbigliamento, se – come spiega il giovane amministratore delegato – «in Cina, per Motivi, abbiamo 45 punti vendita e puntiamo al più presto a 200».
“La moda è quello che uno indossa. Fuori moda è quello che indossano gli altri”, scriveva Oscar Wilde (in Un marito ideale) quasi 120 anni fa: di lì a poco, il giovane capostipite avrebbe cominciato a pensare che la strada per fare affari migliori fosse semplificare i fornitori di tessuti. Li ridusse, da 62 a 11 (non si inventa mai nulla di nuovo...), e fece decollare gli affari. Ora, questa citazione, Elena e Giuseppe l’hanno scritta sulla nuova vetrata dell’atrio della palazzina storica aziendale. Insieme con le parole (anno 1957) di Leo Longanesi: “Il moderno invecchia, il vecchio torna di moda”.
Ma non credeteci troppo. Se ci sono due imprenditori proiettati nel futuro prossimo, questi sono loro. Elena, executive vice president e responsabile delle strategie: appena può viaggia, spesso da sola e senza paura, verso destinazioni tipo – per dire le ultime – Uganda o Etiopia («Il mal d’Africa esiste, ho le prove», sostiene sicura, mostrando splendide foto di villaggi sperduti, leoni e ippopotami), si scarica con lo yoga («Dinamico, però») e ti spiega cosa ha capito del vantaggio competitivo dei cinesi, visto che per business li incontra spesso (Miroglio ha una partnership importante, con sede a Shanghai): «Non si piangono mai addosso, analizzano un problema, fanno un piano d’attacco e a ogni incontro mostrano passi avanti impensabili».

L’abito da sposa. E poi Giuseppe, l’amministratore delegato. Pianifica la penetrazione nei mercati emergenti e la prossima conquista del Brasile («Anche il marchio “curvy” Elena Mirò – taglie 46-48-50, e non ha niente a che vedere con la filiforme sorella, ndr – va forte in mercati come questi») mentre non si perde un concerto di Bruce Springsteen. Ne avrà visti una trentina: Stoccolma, Londra, Parigi. Perfino nel New Jersey natìo del Boss è andato: «Anche se la mia performance preferita è stata l’ultima a Milano», e sottoscrive, come canzone preferita, non la banale Born to run, “Nati per correre”, ma la più solida No surrender: We made a promise/we swore we’d always remember/no retreat, believe me, no surrender, “Abbiamo fatto una promessa/abbiamo giurato che l’avremmo mantenuta/nessuna ritirata, credimi, nessuna resa”.
Promesse. Da mantenere. Cos’è in fondo, d’altro, la sfida imprenditoriale? Questo aveva fatto nonno Giuseppe con i figli, nell’immediato secondo dopoguerra. Aveva trasformato il commercio in industria, tessile inizialmente, poi nel 1955 anche dell’abbigliamento, «dopo aver lasciato la tessitura in mano a mio papà Carlo e allo zio Franco». Era l’Italia che metteva i pilastri per il boom economico con la nascita dei nomi più solidi del capitalismo familiare del Nord-Ovest. I nipotini di oggi erano lontani dal nascere. E poi dal cominciare a bazzicare l’azienda. «Da buoni piemontesi, nonno e papà hanno sempre parlato pochissimo del lavoro, a casa (ma anche fuori, la regola è sempre stata l’understatement, ndr)», racconta Elena, che il fondatore ha fatto in tempo a vederlo solo da piccola. «Erano i tempi in cui faceva fare l’abito da sposa per le dipendenti». Che oggi suona paternalistico. Eppure, coi tempi spietati che corrono, fa quasi venire nostalgia. Giuseppe non aveva mai messo piede negli Stati Uniti. «Ma aveva intuito che la strada era quella della standardizzazione. Della produzione di pochi modelli. Nacque così la “vestaglietta a mille lire”: il primo cavallo di battaglia. Il contrario del fast fashion di oggi insomma».
Sono anni rutilanti. La parte dell’abbigliamento cresce veloce, l’innovazione di metodi di business impone tempi e procedure diversi. Il total look degli Anni 80 fa virare verso la moltiplicazione dei modelli, vengono creati i brand, a cominciare da Motivi, per il target 25-35 anni, che ora conta 600 negozi monomarca nel mondo; nel decennio successivo esplode l’innovazione del fast fashion – «che ha ridotto i tempi, dalla fase creativa alla consegna al punto vendita, da un anno a 4-5 settimane». E Miroglio l’adotta in grande stile, sotto la presidenza (dal ’71) di Carlo (oggi 90enne) e con Franco a.d. Il primo passaggio generazionale dell’industria di Alba fila liscio, mentre le dimensioni crescono, tessile e abbigliamento si scambiano di peso e la fabbrica cambia pelle (anche con le prime delocalizzazioni).
I ragazzi cominciano ad affacciarsi in azienda. «Qualche mese, d’estate, da adolescente», ricorda Giuseppe, che dopo la laurea, prima di rientrare a tempo pieno ad Alba, è stato un paio d’anni nella sede di Londra. «Papà mi faceva sedere con lui: mi spiegava tutto, con pazienza, immerso in una nuvola di fumo. Un ricordo forte? La sua attenzione a non sprecare. Arrivava a girare la carta già stampata nella fotocopiatrice: a un certo punto, tra fronte e retro, non si capiva più niente…». Altro che spending review.
Giuseppe, Elena e la sorella gemella Elisa – che ora è mamma di quattro bimbi e segue la Fondazione di famiglia nata nel ’73, «a cominciare dall’idea di allora dell’asilo: oggi ha 140 bambini, non più solo per dipendenti» – s’iscrivono all’università a Milano. «Mi piaceva disegnare, avevo anche pensato di studiare Restauro a Firenze», continua, «poi chiesi a mio padre un consiglio su cosa fosse compatibile con il lavoro: “Economia e commercio”, mi suggerì». E così fu. «L’ho sempre ascoltato e rispettato», aggiunge, con sincera semplicità. I primi passi, dopo un periodo a Los Angeles («Lì impari a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno»), li farà «sperimentando le varie aree dell’azienda, produzione in primis, per conoscere la macchina, seguita da Roberto Ronchi, che aveva iniziato a 15 anni in Miroglio fino a diventarne il direttore generale».

Fratelli uniti. Capitalismo familiare, terza (quarta, se si considerano le origini commerciali) generazione. Il passaggio di consegne più delicato, nella maggior parte dei casi. Spesso, l’inizio del declino, lento o rapido che sia. Non in questo caso. «Al momento di decidere, qualche anno fa, ci siamo seduti a parlare con i nostri cugini (figli di Franco, ndr) e abbiamo valutato aspettative e prospettive». Il risultato è stato che – «mentre papà Carlo fa il nonno» – Giuseppe, Elena ed Elisa hanno ora il 70%: «Mio fratello pesa per il 50, io e la mia gemella il 25% ciascuna», spiega Elena. «Una divisione fatta una ventina d’anni fa. Mio nonno aveva considerato solo i figli maschi. Va bene così, Giuseppe è bravissimo, riflessivo, io sono più intuitiva, ci completiamo».
Capitalismo «modernamente familiare», lo chiama Elena Miroglio: «Si potenziano la velocità decisionale e la propensione al rischio dell’imprenditore, si prende il meglio della managerializzazione». Per i fratelli, si traduce nel parlarsi di continuo, ogni giorno, per condividere – e discutere – strategie e scelte. Come l’internazionalizzazione: «Il Made in Italy vale in primo luogo per la creatività», spiega Giuseppe Miroglio. «Qui produciamo per il 20%, per il resto abbiamo la capacità di organizzarci, secondo precisi standard qualitativi, dal Marocco alla Turchia e all’Oriente. Ormai non basta esportare. Devi essere radicato nel territorio, dare autonomia ai team locali, coordinandoli con una regia globale». E così, la donna “curvy” Elena Mirò, dopo aver conquistato le clienti latine, sta vestendo russe e tedesche: «Puntiamo presto al Medio Oriente, in grande stile». La crisi c’è, «si sente soprattutto per chi ha una forte esposizione sul mercato del retail italiano». Ma c’è anche il fast fashion che cresce, c’è l’orientamento al brand «verso cui stiamo tarando la struttura», con il piano di sviluppo internazionale, per esempio, di Caractère, e c’è pure «l’idea di puntare verso l’America». Ma, prima, «si continua a penetrare la provincia russa: le città sopra il milione di abitanti sono interessanti, come le ex repubbliche sovietiche, dal Kazakhstan all’Azerbaijan». “La moda è quello che uno indossa”, scriveva Oscar Wilde. Se poi l’indossano in tutto il mondo...