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 2013  marzo 01 Venerdì calendario

LA PAGA DEL MANAGER

NEW YORK La Svizzera, (ex?) paradiso capitalista, va alle urne domenica per un referendum che limiterà i superstipendi dei suoi manager d’azienda: la vittoria sembra scontata col 57% dei sì nei sondaggi. Nella Silicon Valley californiana scoppia la rivolta degli azionisti di Apple contro il chief executive Tim Cook, dopo che si è aumentato lo stipendio del 51% mentre il titolo della società ha perso un terzo del valore in Borsa. Per le oligarchie dei top manager è arrivata la resa dei conti? Cinque anni dopo l’inizio della grande crisi, finalmente pagano anche loro? Il giro di vite più importante viene dall’Unione europea, prende di mira la categoria più odiata di tutte: i banchieri. L’Europarlamento ha dato l’approvazione a una direttiva che limita i bonus — le supergratifiche — nel settore bancario, e impone in sovrappiù nuove regole di trasparenza sui profitti e sulle tasse degli istituti di credito. Per il
Financial Times
è «la più severa misura sulle paghe
dei banchieri dalla crisi finanziaria del 2008».
La nuova regola europea, in vigore dal gennaio 2014, impone che il bonus di fine anno debba essere al massimo equivalente allo stipendio; può raggiungere un rapporto di due a uno solo con una speciale autorizzazione degli azionisti. Ad un normale lavoratore dipendente non sembrerà l’imposizione di un gran “sacrificio” per il banchiere, ma rispetto alle consuetudini passate la svolta è reale.
Lo stesso
Financial Times
fa alcuni calcoli in tasca alle “vittime”. Ecco alcuni esempi. Per l’ex chief executive della Deutsche Bank fino al giugno 2012, Josef Ackermann, la nuova direttiva europea avrebbe significato l’autoriduzione del compenso da 9,35 milioni di euro a 5,77 milioni. Per l’attuale chief executive della Royal Bank of Scotland, Stephen Hester, significherebbe scendere da 7,8 milioni di sterline a 4,2 milioni. Restano cifre da capogiro, beninteso. Ma l’imposizione di un tetto per legge è una novità senza precedenti. Non a caso le reazioni sono particolarmente virulente in una capitale della finanza globale, Londra. Il sindaco Boris Johnson parla di “politiche autolesionistiche”, protesta contro «Bruxelles che s’illude di poter controllare il mercato globale dei talenti bancari». Per il premier britannico David Cameron è una sconfitta politica grave, il suo governo è stato isolato e la
City di Londra si sente trasformata in capro espiatorio.
L’impatto della nuova normativa europea si sentirà anche qui negli Stati Uniti, in diversi modi. Poiché la direttiva si applica a tutte le banche con sede o attività nell’Unione europea, questo significa che potrà limitare i
bonus anche per i capi della Goldman Sachs che operano a Londra; o per i manager di Deutsche Bank che lavorano qui a Wall Street. La prima reazione negli Stati Uniti è più cauta, rispetto alle proteste inglesi. Pesa il fatto che proprio in questi giorni nelle librerie americane sono usciti due
“j’accuse” contro i banchieri, da parte di due ex esponenti dell’Amministrazione Obama. Tutti e due direttamente coinvolti nel maxi-salvataggio delle banche con i fondi pubblici, avvenuto nel 2008-2009. Tutti e due fortemente critici sulla “missione incompiuta” di Obama: il non avere imposto
limiti ai superstipendi dei banchieri. I due esperti in questione sono Sheila Bair che fino al 2011 fu la capa della Federal Deposit Insurance Corporation e lanciò (invano) l’allarme sulle frodi nei mutui fin dal 2000; e Neil Barofsky che fu l’ispettore generale del Tarp cioè il fondo speciale per il salvataggio di Wall Street. I loro due libri-denuncia s’intitolano rispettivamente “Bull by the Horns”(iltorodallecorna)e“Bailout” (salvataggio). Sia la Bair sia Barofsky nel ricostruire la manovra da 700 miliardi di dollari che salvò Wall Street dal crac, convergono su un punto: fu un grave errore non imporre come contropartita dei limiti ai compensi dei top manager dell’alta finanza. Una pietra dello scandalo fu il colosso assicurativo Aig. Quella compagnia era quasi in bancarotta, fu necessario intervenire con 180 miliardi di aiuti pubblici, di fatto una nazionalizzazione. Eppure i verticidi Aig ebberol’audacia di elargire a se stessi 165 milioni di dollari di gratifiche speciali (oltre agli stipendi).
Alcuni dei grandi capi si “premiarono” con bonus di 6,4 milioni a testa. Quando l’episodio si venne a sapere, nel marzo 2009, l’impatto sull’opinione pubblica fu disastroso. Bair e Barofsky ne ricostruiscono i retroscena. Obama voleva mettere un limite a quelle paghe, ma non ci riuscì. Da una parte, era condizionato dal testo di legge sul salvataggio, che lui aveva ereditato dall’Amministrazione Bush. Quel testo era stato firmato dal segretario al Tesoro di Bush, l’ex banchiere di Goldman Sachs Henry Paulson. Inoltre il successore di Paulson, cioè il segretario al Tesoro Tim Geithner
scelto dallo stesso Obama, fece una sorda resistenza contro ogni limite alle remunerazioni. Il suo argomento: bisognava “consentire a Wall Street la massima flessibilità per reclutare i migliori talenti”. E’ lo stesso argomento che riecheggia oggi nelle parole del sindaco di Londra. Reclutare talenti? Il caso Aig dimostra il contrario: Wall Street ha strapagato i suoi top manager quando la bolla speculativa si gonfiava; e ha continuato a strapagarli anche quando la bolla era scoppiata e l’incompetenza dei banchieri era stata messa a nudo. L’idea che gli stipendi dei banchieri siano determinati oggettivamente secondo criteri di mercato è risibile: anche in altri settori, come dimostra Tim Cook di Apple, i chief executive hanno il privilegio sovrano di fissarsi gli stipendi da soli, ignorando il parere degli azionisti. Questa autoreferenzialità è agli antipodi rispetto al funzionamento corretto del mercato. Un altro argomento fu avanzato per frenare Obama dal suo consigliere economico di allora, Larry Summers: “Pacta sunt servanda”, i contratti di assunzione dei banchieri non si possono modificare unilateralmente. Salvo che i patti sono stati calpestati per tutti gli altri: dai dipendenti delle banche ai titolari dei mutui. Alla fine Obama rinunciò, e nella riforma dei mercati finanziari (la legge Dodd-Frank) non c’è nulla che assomigli alla direttiva Ue. Questo spiega l’attenzione verso la misura approvata dall’Europarlamento: stavolta è il Vecchio continente all’avanguardia. Tanto più che la limitazione sui bonus ai banchieri si accompagna ad altre novità sul fronte della trasparenza. Le banche dovranno rivelare dal 2015 quante tasse pagano e quanti profitti incassano, paese per paese: questo è un modo per mettere a nudo certe pratiche disinvolte dei colossi transnazionali che “spostano” profitti da una filiale nazionale a un’altra per minimizzare
il carico fiscale.
Hester, il chief executive di Barclays, anziché opporsi sul principio muove un’altra obiezione: «Perché solo noi banchieri? Non dovremmo essere trattati come animali diversi. Se ci sono regole, si applichino a tutti». E’ proprio questo l’obiettivo del
in Svizzera: se vincono i sì ci saranno limiti di stipendio per tutti i top manager, anche nell’industria. Un dibattito simile è in corso in Germania, dopo lo scandalo per i 17 milioni di euro pagati dalla Volkswagen al suo chief executive Martin Winterkorn. Comunque riservare regole speciali ai banchieri ha una logica: come si vide nel 2008, i loro errori trascinano a picco l’intera economia, con ripercussioni a catena in ogni altro settore.
Rimane un rischio. Che alla fine i banchieri siano più furbi e riescano ad aggirare le norme. Qualcosa di simile è accaduto a Wall Street. Anche se Obama non riuscì a mettere un tetto ai bonus, tuttavia nella legge Dodd-Frank che ha riformato la finanza ci sono dei condizionamenti: le banche devono evitare quelle “strutture retributive” che incentivano comportamenti speculativi ad alto rischio. I bonus rientrano proprio in questi incentivi perversi, perché sono spesso vincolati a profitti di brevissimo periodo. Come hanno reagito i banchieri americani? Come gesto di cooperazione con le autorità, si sono parzialmente ridotti i bonus. E di altrettanto o quasi, si sono aumentati gli stipendi fissi. Il caso più recente è quello di James Gorman, chief executive di Morgan Stanley. Il suo stipendio complessivo, a 9,75 milioni di dollari, è sceso del 7%. Ma lo stipendio fisso è raddoppiato a 1,5 milioni. Il suo collega di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, solo di stipendio fisso porta a casa due milioni. Sono 38.461 dollari a settimana. Chissà la fatica, per riuscire a spenderli.