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 2013  marzo 01 Venerdì calendario

Maroni e a capo [Colloquio Con Luca Zaia] La Lega perde voti ma conquista la Lombardia. E il governatore del Veneto dice: "Roma è debole, il Nord può passare all’attacco"– Perde più di metà dei voti, ma centra il bersaglio grosso e conquista la Lombardia

Maroni e a capo [Colloquio Con Luca Zaia] La Lega perde voti ma conquista la Lombardia. E il governatore del Veneto dice: "Roma è debole, il Nord può passare all’attacco"– Perde più di metà dei voti, ma centra il bersaglio grosso e conquista la Lombardia. In Piemonte è ridotta al lumicino e non è più il primo partito neppure in Veneto, ma per la prima volta le si apre concretamente la strada iperautonomista o paraseparatista della macroregione del Nord. Nel guazzabuglio di queste elezioni sfasciasistema, il contraddittorio risultato della Lega non è l’ultimo dei paradossi in grado di mettere in discussione i destini istituzionali del Paese. Come rivendica Luca Zaia, presidente della Regione Veneto dal 2010, ex-ministro dell’Agricoltura in guerra contro gli ogm, ieri oculatamente fuori dalla faida interna fra bossiani e maroniani, oggi indicato da Maroni come uno dei due o tre con le carte in regola per succedergli alla segreteria federale del Carroccio. La Lombardia val bene una messa, ma la botta per la Lega è stata pesantissima. Avete sbagliato strategia? «La corsa solitaria ci avrebbe reso molti più seggi a Roma, ai nostri militanti bolle subito il sangue nelle vene quando gli dici "andiamo da soli". Ma sarebbe finita lì. Così invece si aprono le porte per un cambiamento radicale, l’avvio della macroregione». Insomma, nonostante il salasso dei voti, con la Lombardia a Maroni e un governo nazionale debolissimo se mai si farà, questa è per voi la condizione ottimale? «Se avessimo dovuto programmare una situazione a noi favorevole, l’avremmo disegnata così, sì: debolezza del potere centrale e alto potere contrattuale del Nord. Roma non è forte abbastanza per contrastare l’ondata di piena che arriverà dal Nord. Purché a fronte del progetto politico di macroregione ne cresca uno culturale, di presa di coscienza: è su questo che dobbiamo ora investire». Ci arriviamo, ma prima analizziamo il voto. In Veneto siete scesi dal 27 per cento delle politiche 2008 a poco più del 10. Artigiani, piccoli imprenditori, partite Iva vi hanno abbandonato per il Movimento 5 stelle: un quarto dei vostri voti sono andati a Grillo, dice l’analisi dei flussi elettorali prodotta da Swg. «Mi aspettavo anche di più, io sto in mezzo alla gente, sentivo leghisti dirmi "al Senato voto il mio partito, alla Camera 5 stelle per dare un segnale". Ma Grillo neanche ci sarebbe, se a Roma destra e sinistra avessero fatto ciò che io ho fatto in Veneto: legge elettorale quale tutti auspicano, eliminazione dei vitalizi, taglio del numero di consiglieri, blocco a due mandati per presidente e assessori, dotazioni democratiche minimali. Avrà letto, proprio in quell’analisi Swg, che "la Lega riconquista parte dei voti in fuga solo con la figura di Zaia: +19-22 per cento nell’ipotesi di elezioni con la sua guida"». Avete ceduto voti anche al Pdl. E una delle sue prime dichiarazioni a botta calda è stata che bisognerà «individuare le responsabilità». Di chi sono? «Non trasformerei la lettura dei dati in un’altra inutile e cruenta battaglia: la ricreazione è finita, utilizzerei gli errori per non commetterli più in futuro». Sì, bene, ma quali sono questi errori? «Per esempio non aver investito nel partito per ricompattare la militanza dopo un congresso che si era spaccato...» Intende quello che nel giugno dell’anno scorso elesse nuovo segretario della Liga Veneta il sindaco di Verona Flavio Tosi con appena il 57 per cento dei voti? «Sì. È la democrazia, intendiamoci. Ma ora bisognava approfittare delle candidature per ricompattare la militanza». Invece? «Tosi ha avuto una grande occasione per scegliere le liste partendo dalle sezioni e circoscrizioni, le nostre primarie interne. Invece ha avocato tutte le scelte a sé e a pochi intimi: io stesso ho letto le candidature sui giornali. Le ha fatte passare come liste della pulizia interna, ma ha mandato a casa giovani dopo una sola legislatura. Non discuto le persone, ma le modalità: sono servite solo a far incazzare ancora di più gli scontenti. Invece di sanarla, la ferita è stata trasformata in cancrena». Gli incazzati sarebbero i bossiani? «Ma mica puoi rubricare come bossiani tutti quelli che al Congresso non hanno votato Tosi! In Veneto i bossiani doc li conti sulle dita di una mano, con tutto quello che ha combinato la famiglia, figuriamoci!». Tosi ha detto anche che bisogna «andare oltre la Lega», che il Carroccio «deve evolversi», che serve un nuovo «contenitore». Lo ha spiegato il mercoledì prima del voto in un’assemblea organizzata dalla sua Lista Tosi con una folta pattuglia di Dc d’antan. E ha tessuto l’elogio della Dc che «prima dello sfascio di Tangentopoli ha fatto un gran bene al Veneto e all’Italia intera». «Intanto, non puoi andare a vendere un detersivo e tre giorni prima che la gente lo acquisti dichiarare che bisogna guardare oltre perché fra un mese ne esce uno che lava ancora più bianco: è contro le più elementari regole del marketing. Poi, quegli ex democristiani rimasti come riserva indiana hanno certo diritto a tutto il rispetto, ma va pur detto che nel ’92 è sulle loro disgrazie, a volte non meritate, che noi Lega abbiamo costruito le nostre fortune: prima di incontrarli in quel modo sarebbe stato il caso di discutere nella Lega se era il caso di farlo e per dirgli cosa». Quindi niente «nuovo contenitore»? «Che il partito debba diventare sempre più "lobby del Nord" l’ho detto anch’io a Maroni, in tempi non sospetti. Ma le case si costruiscono dalle fondamenta, non dal tetto. Partendo dai contenuti, discussi e articolati sui territori, non da un contenitore che non si capisce di che tipo dovrebbe essere: federalista, autonomista, indipendentista, nazionalista come la Csu bavarese?» La Csu, par di capire. «Non funziona: la Csu è la costola federalista di un partito nazionale, la Cdu, e l’anno scorso ha persino perso 19 punti e l’egemonia che deteneva dal 1949». E i contenuti quali sarebbero? «Quelli di un partito identitario e territoriale, di cui il Nord ha bisogno». Tasse, immigrazione... «No, guardi, tutti, anche quelli che riguardano le persone. Io per esempio ho una visione liberale. Eterosessuale senza pentimenti, credo che un partito moderno non possa e non debba ghettizzare i gay. E sulla fecondazione assistita ho fatto in Veneto una legge che la rende gratuita per tutte le donne fino a 50 anni. Me ne hanno dette di tutti i colori, per questo». Macroregione, allora. Mi spiega perché i veneti dovrebbero rinunciare al Veneto e trasferire a Milano il capoluogo della loro Regione, allontanando da sé i centri delle decisioni che li riguardano, sia quelle strategiche sia quelle operative, degli uffici, della burocrazia? «Ma non vi rinunceranno mai! Macroregione significa condividere una sfida, non abbandonare le prerogative dei propri territori!» Allora è un nuovo livello istituzionale che si aggiunge agli altri? «No. È la risposta all’imbarazzo del governatore di una Regione, la mia, che ha 162 mila disoccupati, lascia a Roma 18 miliardi di tasse l’anno e poi si sente dire che una siringa costa da me 6 centesimi e al Sud 24, o che un pasto nei miei ospedali è pagato 6 euro e mezzo, al Sud fino a 60. Se si costringessero tutti a essere virtuosi come noi, il risparmio annuo sarebbe di 28 miliardi di euro: pari, per capirci, a un terzo degli interessi sul debito pubblico. È una questione di legittima difesa, la macroregione. È lo stesso presidente Napolitano a dire che il federalismo non è una scelta ma una necessità». Tecnicamente il progetto di macroregione elaborato da Gianfranco Miglio negli anni Novanta prevede, come da Costituzione, che più Regioni possano unirsi dopo apposito referendum. Ma il Piemonte in questa tornata è andato al centrosinistra, e con le recenti inchieste giudiziarie la giunta Cota è traballante. Che cosa farete, il Lombardo-Veneto? «Miglio teorizzava la macroregione quando eravamo fuori dal Palazzo, noi ora siamo dentro e possiamo gestire l’operazione in modo molto più rapido. Quanto al Piemonte, Cota governa fino al 2015, la macroregione lo rafforzerà, non considero neanche l’ipotesi che il Piemonte non sia della partita». Lei è da meno di un mese il primo presidente di Euregio, nuova entità giuridica costituita fra Veneto, Friuli e Carinzia... «E da luglio entreranno Slovenia e Istria croata». Già pare complicata la macroregione del Nord, se ancora ci aggiungete pezzi di altri Stati. «E perché? Euregio la si può leggere quale inizio da est della macroregione del Nord. Come scriveva otto anni fa in "Democrazia e populismo" John Lukacs, emigrato ungherese in America, storico, biografo di Churchill, che ho avuto il piacere di conoscere, con 20 lingue e 27 nazioni gli Stati Uniti d’Europa non si faranno mai: l’unico modello praticabile è quello cantonale svizzero, macroaree che si organizzano su interessi comuni». Un’ultima domanda sulla Lega. Maroni si dimetterà da segretario federale, come disse prima del voto? «Penso non debba farlo. Ha appena iniziato, non può mollare. Uomo di garanzia per l’istituzione di cui è presidente, la Regione Lombardia, credo debba rimanerlo anche per la Lega. Occupandosi da subito della questione del Veneto». Che sarebbe? «Un partito lacerato. Da ricompattare al più presto».