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 2013  febbraio 27 Mercoledì calendario

BOOM NELLA PRATERIA

Quando arriva al primo pozzo di petrolio della giornata, Susan Connell getta sul cruscotto i suoi occhiali alla moda e alza fino al collo la zip della tuta ignifuga. Sono circa le sette di ima mattina di inizio luglio, e Susan, 39 anni, due figlie piccole, è una delle poche donne a guidare uno dei giganteschi autoarticolati a 18 ruote utilizzati nel distretto petrolifero del North Dakota occidentale. Qui, nella Riserva indiana di Fort Berthold, Susan è venuta a caricare acqua: "acqua prodotta", secondo la definizione ufficiale, ma i camionisti la chiamano acqua sporca. Quando si comincia a sfruttare un pozzo, per qualche giorno il greggio sgorga misto ai fluidi e alle altre sostanze utilizzate durante la trivellazione e ali’acqua salata che abbonda sopra gli strati di roccia in cui si trova il petrolio. Col passare del tempo la quota di additivi artificiali diminuisce e resta solo l’acqua. Davanti a noi si ergono sei serbatoi alti come palazzi di tre piani: cinque contengono petrolio, nel sesto c’è tutto il resto. Ed è questa roba che Susan deve trasportare fino a un pozzo di smaltimento.
«Vedi di non svenire», mi dice in tono semiserio. Ci siamo arrampicati su per una scaletta ripida fino a una stretta passerella d’acciaio a nove metri d’altezza da terra, ma il rischio non sono le vertigini. Susan mi racconta che, una delle prime volte che ha aperto il portellone di un serbatoio d’acqua sporca, le esalazioni l’hanno quasi messa KO. «Sono caduta in ginocchio», spiega. Nessuno l’aveva avvisata delle decine di agenti chimici presenti nell’acqua, tra cui l’acido solfidrico, con il caratteristico odore di uova marce dovuto ai batteri che vivono all’interno dei pozzi. Ad alte concentrazioni può essere tossico, persino mortale. Paradossalmente, il gas presenta rischi maggiori proprio quando attenua il senso dell’olfatto: è un’altra regola di sicurezza che Susan ha dovuto imparare a sue spese. Poi qualcuno le ha dato un rivelatore di acido solfidrico, e lei ha cominciato a fissarlo sul bavero quando si avvicina a un pozzo che potrebbe essere pericoloso. Una volta il rivelatore ha suonato mentre lei stava scaricando l’acqua sporca dalla cisterna del suo camion. Si è allontanata di corsa, pensando di essere al sicuro, ma a distanza di ore ha cominciato a sentire dolori lancinanti allo stomaco, preludio di un attacco di vomito durato una settimana. Allora ha comprato una maschera antigas.
Susan mi raccomanda di mettermi sopravento, poi solleva il portellone con grande cautela. Niente esalazioni: se lo aspettava, perché ha caricato spesso l’acqua di questo pozzo, ma non si sa mai, la routine può essere sempre interrotta da una spiacevole sorpresa. Srotola un metro a nastro dentro il serbatoio. Per un attimo, dall’alto della passerella, posso spaziare con lo sguardo su tutta la campagna circostante: poco oltre la ghiaia rosso corallo che copre l’area del pozzo ci sono campi di lino e girasoli, seguiti da distese ondulate di grano, erba medica e colza e poi, ancora più in là, i calanchi in cui il fiume Missouri ha inciso un’ampia curva. La semplice e straordinaria bellezza delle pianure del Nord.
Ma il mio idillio campestre viene presto interrotto. Susan è scesa dalla scala e sta estraendo dal camion un tubo lungo sei metri, simile a una manichetta antincendio ma più pesante. Benché sia alta meno di un metro e 70 e pesi appena 45 chili, la donna si muove rapidamente, piegandosi in avanti per trascinare il grosso tubo per terra. Fissa un’estremità al retro della cisterna del camion e l’altra a un’apertura di scarico alla base del serbatoio di stoccaggio. Poi tira una lunga maniglia di metallo e apre la valvola. Per vedere le trecce brune che le cadono sulle spalle o gli occhi azzurri nascosti dalla visiera del logoro cappellino da baseball bisogna guardarla proprio da vicino.
Mezz’ora dopo ce ne andiamo, con un carico di un centinaio di barili. Susan non usa molto la frizione: «Come i veri professionisti», dice con un sorriso malizioso. Poi ammette che ha impiegato mesi per imparare a scalare le marce in prossimità di un semaforo.
Quello del camionista è il mestiere più diffuso in questo distretto petrolifero più vasto dell’intera Italia centrale, dove, grazie ai progressi nelle tecnologie di trivellazione ed estrazione, è diventato possibile prelevare il petrolio da giacimenti molto profondi e distanti tra loro. Dall’inizio del 2006 l’estrazione del greggio dalla cosiddetta Formazione di Bakken è aumentata di quasi 150 volte, raggiungendo più di 660 mila barili al giorno. Oggi il North Dakota è secondo nella classifica USA degli Stati produttori di petrolio, dopo il Texas e prima dell’Alaska.
Nessuno, se non pochi addetti ai lavori, si aspettava uno sviluppo del genere. Oggi i petrolieri più ottimisti prevedono che la produzione giornaliera dello Stato potrebbe uguagliare quella del Texas, circa due milioni di barili, e che il numero di pozzi attivi potrebbe salire dagli 8.000 di oggi a 40 o 50 mila. Quando questa corsa all’oro nero si placherà, probabilmente tra vent’anni, saranno stati estratti almeno 14 miliardi di barili di greggio di alta qualità. E finché in questa regione rurale senza sbocchi sul mare non saranno costruiti nuovi oleodotti, acqua e petrolio dovranno essere trasportati quasi sempre con i camion, così come la ghiaia, i materiali da costruzione, le attrezzature, i macchinari e tutto ciò che serve per uno sviluppo rapido e su vasta scala. La prateria si sta industrializzando. E se proprio dobbiamo scegliere un simbolo di questa trasformazione, il più adatto è l’autoarticolato a 18 ruote di Susan Connell.
Un cambiamento di tale portata e intensità non può non sollevare interrogativi. Nella zona si stanno trasferendo migliaia di persone alla ricerca di lavoro, di redenzione o di guai. Di lavoro ce n’è tanto. Williston, al centro del distretto petrolifero, ha un tasso di disoccupazione sotto l’uno per cento. Ma come potrà una zona di fattorie e piccole città sopportare una simile invasione? C’è poi la minaccia del danno ambientale. Si parla molto del cracking, o fratturazione idraulica, una tecnologia che consiste nel pompare grandi quantità di acqua dolce mescolata a sabbia e altre sostanze, alitine delle quali tossiche, ad altissima pressione negli strati profondi di roccia scistosa, in modo da creare crepe attraverso le quali le bolle di petrolio o di gas naturale intrappolate in profondità possano risalire in superficie. Dove prendere tutta questa acqua pulita? Come evitare che l’acqua sporca pompata dal pozzo contamini la falda acquifera come è accaduto in altre parti del paese? E infine, considerando la questione in una prospettiva più ampia: sarà possibile preservare i valori inestimabili della prateria silenzio, solitudine, serenità dallo sviluppo frenetico della regione e dall’ansia di estrarre la massima quantità di petrolio il più in fretta possibile?
Le possibili ripercussioni vanno molto al di là del territorio del North Dakota. I depositi scistosi simili alla Formazione di Bakken si trovano in tutti gli Stati Uniti, anzi in tutto il mondo. E la tecnologia estrattiva messa a punto in questa zona può servire da passepartout per aprire altri scrigni pieni di prezioso oro nero.
Davanti alla sbalorditiva efficacia di questa tecnologia e alla situazione dei mercati, che ha reso conveniente lo sfruttamento di giacimenti difficili da raggiungere e quindi più costosi, alcuni esperti si sono convinti che l’economia basata sui combustibili fossili possa durare più a lungo del previsto. A detta di Harold Hamm, petroliere miliardario e pioniere dello sfruttamento della Formazione di Bakken, le previsioni di un prossimo esaurimento delle riserve di petrolio e gas naturale sono semplicemente false. Hamm sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero adottare una politica energetica basata sull’abbondanza di petrolio e gas naturale e smettere di privilegiare le fonti rinnovabili In ogni caso, nel North Dakota non capita spesso di discutere sui rischi legati al consumo di combustibili fossili. «I cambiamenti climatici? Da queste parti non se ne parla», dice Susan.
Il North Dakota ha già avuto altri periodi di boom economico, negli anni Cinquanta e negli Ottanta del secolo scorso. La differenza è che il boom attuale, oltre a essere più consistente e probabilmente più duraturo dei precedenti, coincide con un periodo di grave crisi economica. Per chi fugge dalla recessione la Formazione di Bakken rappresenta un’opportunità spesso l’ultima per evitare la rovina.
È il caso di Susan Connell. Mentre ci dirigiamo verso il sito di smaltimento su una strada a due corsie intasata dai mezzi pesanti, lei mi racconta com’è finita al volante del suo bestione. I problemi sono iniziati nel 2009, quando lei e il marito, che vivono nel Montana sudoccidentale, non sono più riusciti a trovare lavoro nell’edilizia. In autunno erano in ritardo di tre mesi sui pagamenti del mutuo per la casa.
La banca mandava lettere minacciose. Poi Susan ha sentito dire che in North Dakota c’era bisogno di camionisti. Lei aveva già fatto l’autista di pullman, ma per passare agli autoarticolati doveva prendere un’apposita patente. Il corso di aggiornamento costava 4.000 dollari; benché in quel periodo riuscissero a malapena a comprare da mangiare per i loro figli, i Connell decisero di pagare l’iscrizione con una carta di credito. «Fu un grosso azzardo», spiega Susan: non tanto per il rischio di non trovare lavoro, quanto per quello di non essere ben accetta in quella che lei definisce «la nuvola di testosterone».
Da ragazza Susan si era esibita come cabarettista nei locali di Philadelphia, suscitando anche l’interesse di qualche tv nazionale. Ma la sua vera passione era l’arte: dipingere, girare film, soprattutto scrivere storie e interpretarle davanti al pubblico. Per sei anni era stata la cantante di un gruppo rock. Tutte queste esperienze avevano fatto maturare in lei un coraggio allegro e disarmante, al limite della spericolatezza. Ora la vita le chiedeva di fare un nuovo provino per un ruolo impegnativo.
In una gelida mattina di metà dicembre, Connell preparò i pancake alle figlie, le salutò sforzandosi di non piangere e partì per il viaggio di sette ore che l’avrebbe portata al confine con il North Dakota. Cercava lavoro presso le ditte di trasporti e intanto dormiva in macchina o in motel di quart’ordine, con una temperatura che di notte scendeva molto al di sotto dello zero. Fu rifiutata da almeno una quindicina di aziende; spesso le rispondevano che il distretto petrolifero non era un luogo adatto alle donne, e un tizio le disse che commetteva un sacrilegio non restando a casa a badare alle figlie. Susan era furiosa. «Volevano decidere loro come dovevo guadagnarmi da vivere», dice.
La prima offerta di lavoro arrivò dopo le vacanze di Natale, ma si trattava di trasportare cereali non acqua o petrolio per una paga decisamente inferiore, tra il Nord Dakota occidentale, il Montana orientale e parte della provincia canadese del Saskatchewan. Come se non bastasse l’inverno del 2010-2011 fu particolarmente rigido. Non era certo la situazione ideale per guidare un autoarticolato per la prima volta, per di più da sola. «Ero nervosissima, pensavo che sarei morta», racconta Susan. Le strade erano sempre ghiacciate. Ma alla fine imparò a manovrare il camion sui campi coperti di neve; a scaricare i silos stando in piedi in cima al rimorchio, spesso al buio, mentre il nevischio e la polvere le sferzavano il volto; e a provvedere da sola alla manutenzione del mezzo.
Intanto i posti di lavoro aumentavano al ritmo del boom petrolifero. Fin dagli anni Novanta al fracking veniva affiancata la cosiddetta perforazione direzionale: una volta trivellato il pozzo si continuava a scavare in orizzontale per raggiungere gli strati sottili di roccia contenenti petrolio e gas. Nella Formazione di Bakken, la Continental Resources di Harold Hamm e altre aziende lungimiranti avevano perfezionato questa tecnica, allungando i tratti orizzontali dei pozzi fino a tre chilometri e migliorando la miscela di sostanze usate per la fratturazione. Nel North Dakota, la Continental aprì il primo pozzo economicamente sostenibile nel 2004. Due anni dopo la EOG Resources dovette sospendere l’estrazione di petrolio in un pozzo in cui la pressione era eccessiva e scavarne un altro per allentarla.
«L’entusiasmo era alle stelle», ricorda Lynn Helms, direttore del Dipartimento delle Risorse minerarie del North Dakota. Le aspettative crebbero. Il punto di svolta fu raggiunto nel 2009, quando la Brigham Oil & Gas riuscì a scavare 25 gallerie orizzontali in un unico pozzo, applicando a tutte la fratturazione, e aumentando la produzione giornaliera a centinaia di barili al giorno. Helms calcola che per ciascun pozzo il primo anno di attività dalla trivellazione al fracking, fino all’inizio della produzione comportava circa 2.000 viaggi su camion; senza contare quelli necessari negli anni seguenti. Le autorità dello Stato cominciarono a prevedere che i pozzi sarebbero stati decine di migliaia, concentrati soprattutto in quattro contee sulle rive del fiume Missouri: Williams, Mountrail, McKenzie e Dunn. Le implicazioni erano sbalorditive. «Si accese una lampadina», spiega Helms. Serviva di tutto: più manodopera, più autostrade, più ferrovie, più linee elettriche. E anche molta pazienza in più.
Brent Sanford è il sindaco di Watford City, una cittadina trasformata dal boom. Quarant’anni, discendente da una famiglia che vive qui da quattro generazioni, sta seduto davanti a un computer nel suo ufficio alla S & S Motors, l’azienda che suo nonno ha fondato nel 1946 e che lui ha ripreso in mano da quando è tornato a casa, nove anni fa. «È un’operazione mineraria su vasta scala, e io l’appoggio in pieno», dice. «La mia città stava morendo». La crisi che fino a poco fa attanagliava Watford City e decine di altri centri era tale che qualche geografo aveva proposto di abbandonare del tutto la regione e lasciarla ripopolare dai bisonti (un’idea che è meglio non ricordare a Sanford o ai suoi compaesani se non si è pronti alla rissa). Anno dopo anno, il North Dakota occidentale si svuotava di speranze, oltre che di persone. Il boom del fracking ha ribaltato la situazione. «Ora possiamo rimetterci al lavoro», conclude il sindaco.
Per capire bene di che lavoro si tratti, visito un pozzo a nord-est di Willinston dove è stata appena scoperta una perdita sul fondo del condotto verticale, a circa tre chilometri di profondità. Per riportare la conduttura in superficie è stata eretta una struttura simile a una torre di perforazione, ma più piccola. In cima alla torre, su una passerella a nove metri d’altezza, quattro operai stanno recuperando i 3.275 metri di tubature, un lavoro allo stesso tempo monotono e molto pericoloso. Tirano su un segmento alla volta: sotto la passerella è stato installato un congegno che regge ciascun segmento lungo quasi dieci metri e pesante più di 200 chili per evitare che la pressione del petrolio faccia saltare per aria tutti i tre chilometri di tubi, una massa d’acciaio che pesa in tutto oltre 76 tonnellate. Come a ricordarci questa eventualità, un getto di petrolio schizza improvvisamente dal buco, inzaccherando completamente gli operai. Nell’aria si diffonde l’odore di gas. Nel corso dell’operazione la cosa si ripete più volte. Ma quegli operai sanno bene cosa stanno facendo: sono costantemente esposti al pericolo, sono ben pagati, e hanno ottime ragioni per essere orgogliosi. In tempi pervasi da geni dell’high-tech e maghi della finanza, questi lavoratori altamente qualificati che rischiano la vita sembrano quasi eroi.
Sanford non nega che Watford City stia vivendo un periodo traumatico. In due anni è passata da 1.700 ad almeno 6.000 abitanti, e forse, stima lo stesso sindaco, ha raggiunto i 10 mila. La carenza di alloggi è così grave che gli uomini sono ancora quasi tutti uomini sono costretti a dormire nei camion o in motel troppo cari; a pagare tariffe gonfiate per parcheggiare camper, roulotte o case mobili; oppure ad abitare in uno dei costosi villaggi-dormitorio prefabbricati sorti ai margini delle cittadine e dei luoghi di lavoro. Le strade sono intasate da mezzi rumorosi e inquinanti: autocisterne, camion di ghiaia, autocarri a pianale, autoribaltabili, furgoncini e quegli enormi pickup che, nonostante i consumi esorbitanti, sono i mezzi preferiti anche per il trasporto privato. Aumentano i reati, gli incidenti stradali, le emergenze mediche. Famiglie a reddito fisso sono costrette a traslocare perché non possono permettersi gli affitti rincarati. Il sistema idrico e fognario regge a stento all’uso eccessivo. Si diffonde la prostituzione. Pregiudicati per reati sessuali girano indisturbati per la città.
Per Sanford però, i media stanno esagerando gli effetti negativi del boom. Non solo Watford City sopravviverà, ribadisce, ma alla fine i vantaggi saranno di gran lunga superiori alle perdite. La casa «è il problema maggiore», ammette, ma le attuali difficoltà devono essere considerate legate a un momento di passaggio, in attesa della costruzione di nuovi appartamenti e magari anche di villette monofamiliari. La scuola elementare è già stata ampliata; saranno presto edificati un nuovo centro ricreativo, un complesso di case popolari con asilo nido e un ospedale. Si stanno riparando e ampliando le strade. In città le vecchie aziende, compresa quella di Sanford, hanno ripreso a fare affari, e ne sorgono continuamente di nuove.
Il settore dei trasporti è tra i più floridi. La Power Fuels, un’azienda locale specializzata nel trasporto di petrolio, acqua e altri liquidi, è passata in sette anni da 50 a 1.200 dipendenti sparsi in quattro città, e sta costruendo 11 complessi da 42 appartamenti ciascuno per alloggiarli. Se tutto va bene, un autoarticolato può rendere 40 mila dollari al mese.
Una sera d’aprile del 2011, in attesa che passasse l’ennesima tempesta di neve della stagione, Susan Connell rimase bloccata in una stazione di servizio e si mise a chiacchierare con una ventina di altri camionisti che trasportavano acqua e petrolio. Si scoprì che lei, Punica donna, era anche Punica che non fosse finita fuori strada durante la bufera. Il giorno dopo si alzò alle cinque, spalò la neve che bloccava il suo camion e fu la prima a rimettersi in strada. La cosa non sfuggì ai suoi colleghi, e uno di loro, proprietario di una piccola azienda di trasporto dell’acqua, la chiamò poco dopo per offrirle un lavoro. Di colpo la paga di Susan passò da 600 a 2.000 dollari alla settimana. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi del mutuo: la casa era salva.
Nel North Dakota occidentale storie come questa sono piuttosto comuni tra camionisti, manovali e operai dei pozzi, tra fornitori di servizi e attrezzature, tra geologi, ingegneri e specialisti della trivellazione. Ma a guardarlo da vicino, il solido boom petrolifero appare più come una collezione di fragili miniboom. Nel giro di sei mesi, ad esempio, il nuovo capo di Susan è stato costretto a licenziarla per mancanza di lavoro.
Che cosa resterà di tutta la crescita economica che sta cambiando il volto di questa regione? E ciò che resterà sarà positivo? Interrogativi come questi assillano Dan Kalil, presidente del Board of Commissioners (l’organismo di governo) della contea di Williams. «L’industria del petrolio è qui solo in affitto», afferma: nel senso che non è radicata nella zona, a differenza delle attività agricole tradizionali (la sua famiglia possiede un ranch da un secolo). Un contrasto ben simboleggiato dai due tipi di strutture più comuni nella prateria: la torre di trivellazione, che è mobile, e il silos per i cereali, che è permanente. «Quando l’industria si sposterà a sud, e accadrà sicuramente», sostiene Kalil, «se ne andranno tutti».
Kalil non si oppone allo sviluppo in generale, ma solo a quello sfrenato che a suo dire è caratteristico di questo boom. «Sarebbe meglio rallentare», dice; ed è un’osservazione che in tutto il distretto petrolifero fa sempre più spesso da controcanto ai proclami ottimistici. Contenere lo sviluppo prima che distrugga i tratti distintivi di questa regione: la vita tranquilla, i legami che tengono unite le comunità. Anche se rallentare fosse davvero possibile e Kalil ormai non ci spera quasi più l’unico modo sarebbe limitare la quantità di trivelle e di concessioni petrolifere, misure che le autorità dello Stato non sembrano affatto intenzionate a prendere.
Chiedo anche a Susan Connell che nel suo piccolo è già passata più volte dal boom alla crisi e viceversa, prima di trovare un lavoro più stabile in una grande ditta di trasporti se per lei il petrolio sia una fortuna o una maledizione. Siamo alla fine delle 12 ore del suo turno di lavoro, e siamo tornati al pozzo nella riserva per caricare altra acqua sporca. «Certo non sento di far parte di tutto questo», risponde, parlando delle risse fra ubriachi, dei senzatetto, delle fuoriuscite di petrolio e di acqua sporca. «È stata dura, ma alla fine me ne sono fatta una ragione». Dietro di noi la fiammata di una torcia di combustione del gas, alta tre metri, si espande all’improvviso con un ruggito minaccioso. In zona i sistemi di raccolta sono ancora insufficienti, così almeno un terzo del gas naturale che sale in superficie assieme al greggio viene bruciato, uno spreco di cui tutti si rammaricano e a cui lo Stato spera di porre fine al più presto. Di notte in alcune aree la prateria sembra illuminata da gigantesche candele, uno spettacolo suggestivo e inquietante.
«C’è del bene e del male in tutto», continua Susan, cercando di esprimere a parole un sentimento inafferrabile. «Io lo accetto, tutto qui». Il che non significa che non preferirebbe cambiare vita. «Ci ho provato, a lasciare tutto», spiega. Il suo è un lavoro usurante, precario e solitario. Separarsi dalla famiglia diventa sempre più difficile, tutte le volte che parte le figlie la implorano di rimanere a casa. E nella "nuvola di testosterone" minacce e tentativi di ricatto sessuale sono all’ordine del giorno, tanto che ha cominciato ad andare in giro armata (di solito le basta una spranga d’acciaio per scoraggiare i malintenzionati). Ma dalle sue parti è ancora difficile trovare un lavoro ben pagato. Eppure, continua la donna, questa non è l’unica ragione che la spinge a restare qui. Ha dimostrato di poter fare questo mestiere e di essere più brava di tanti colleghi. E, cosa ancor più importante, sente di aver combinato qualcosa nella vita. «Dopo aver faticato tutto il giorno, mi sento carica di energie, proprio come i maschi», ridacchia. «Sono proprio un camionista di quelli tosti».
Resto definitivamente stregato dalla prateria in un giorno preciso, guidando verso la fattoria dei Jorgenson, nell’angolo nordoccidentale della contea di Mountrail. Imbocco una strada sterrata tra campi di grano, erba medica e girasole che si estendono a perdita d’occhio. Se ti trovi in questa parte del paese e non hai fretta, non puoi fare a meno di notare i suoni: ce ne sono pochi, e quasi tutti orchestrati dal vento, che ulula, martella o, come in questa mattina, sussurra passando tra le coltivazioni ancora verdi. Vado avanti per 13 chilometri su una strada senza curve, che non mi prepara a quello che trovo una volta arrivato a destinazione: la White Earth Valley, un ampio bacino erboso che deve molto del suo fascino alla piattezza delle terre che lo circondano. Qui, su un promontorio che domina la valle, vivono da più di trent’anni Richard e Brenda Jorgenson.
Brenda mi porta a fare un giro in quad, un quadriciclo fuoristrada, con due dei suoi nipotini. Costeggiamo macchie di prateria vergine dove crescono echinacea, iris e Gaillardia, e gole coperte di frassini e cespugli di Amelanchier. Brenda era ancora all’università quando Richard le mostrò la valle per la prima volta. «Fu amore a prima vista», ricorda. Passarono otto anni prima che potessero costruirsi una casa, con le loro mani; si trasferirono nel 1980. Coltivare i campi in questa zona non basta quasi mai a mantenere una famiglia; come tanti altri proprietari terrieri che ho conosciuto, Richard ha avuto un secondo lavoro fino al 2006, quando è andato in pensione, mentre Brenda lavorava part-time.
Raggiungiamo un punto panoramico sul White Earth, un torrente che scorre sinuoso tra le terre dei Jorgenson. Lì nel fondovalle una compagnia, la Alliance Pipeline, intende collocare un gasdotto ad alta pressione per collegare un impianto di lavorazione di Tioga alla conduttura principale, che dista 128 chilometri. Proprio oggi i periti della ditta dovrebbero smettere di aggirarsi attorno al ranch. I Jorgenson e parecchi loro vicini si oppongono al progetto: «Non voglio una bomba nel cortile», proclama Richard, timoroso di un’eventuale esplosione di gas. Ma la Alliance si è rivolta ai tribunali, minacciando di chiedere l’esproprio in nome di una superiore pubblica utilità: in questo caso, la fornitura di energia al paese.
Ma i Jorgenson devono già fare i conti con l’invadenza delle trivelle. A poco più di 200 metri dalla loro casa, una pompa petrolifera è in funzione giorno e notte, con tutto il rumore, il traffico e i rischi di inquinamento che ne conseguono. Brenda e Richard non hanno potuto opporsi. Secondo la legge del North Dakota, un proprietario terriero può vendere i diritti di sfruttamento del sottosuolo senza cedere la proprietà sulla "superficie".
Quando il padre di Richard comprò un appezzamento di 400 ettari, il venditore non gli disse di aver già ceduto i diritti minerari in lotti di due ettari ciascuno a gente sparsa in tutto il paese. In più, quei diritti sono più volte passati di mano per eredità. Risultato: esaminando i registri, Brenda ha scoperto con orrore che i diritti di sfruttamento del sottosuolo dei 16 ettari che circondano la sua casa appartengono a 110 sconosciuti. E se una compagnia riesce a convincere il 51 per cento dei detentori dei diritti compito non difficile, visto che si tratta di fare soldi senza correre alcun rischio può trivellare un terreno che non le appartiene.
Questo bizzarro cavillo della legge non è stato corretto per tempo, e ormai nel North Dakota la fase dell’affitto delle concessioni e dell’esplorazione dei giacimenti è ampiamente conclusa: chi vive e lavora su quelle terre vede il proprio destino deciso da chi magari non ci ha mai messo piede. In altre parole: i benefici del boom si stanno disperdendo. Certo, chi ha conservato i diritti minerari del proprio terreno può guadagnare molto; ma somme ancora più ingenti stanno lasciando la regione. I camionisti come Susan Connell e gli altri lavoratori temporanei li usano per pagare i debiti che hanno contratto nei loro Stati di provenienza. Altri profitti finiscono nelle tasche dei dirigenti delle compagnie petrolifere che vivono in Canada, Texas e Oklahoma, e in quelle degli azionisti sparsi ovunque. Gli svantaggi, invece, sono localizzati, e a subirli sono soprattutto i residenti di lunga data.
Nell’agosto scorso Susan ha guidato per un giorno un autocarro a pianale che trasportava tubature. È stata contenta di provare qualcosa di nuovo. Per lei potrebbe anche essere la mossa giusta, visto che, per ridurre gli effetti negativi e i costi del trasporto su gomma, il governatore dello Stato Jack Dalrymple ha chiesto di accelerare la costruzione di una fitta rete di condutture. Si pensa ad almeno 10 mila chilometri per ciascuno dei quattro prodotti dei pozzi: petrolio, gas naturale, acqua salina e fluidi di riflusso, cioè il misto di liquidi artificiali e naturali utilizzati per il fracking che risalgono dal pozzo. La lunghezza delle tubature che dovrebbero attraversare il North Dakota occidentale basterebbe a circondare Finterò pianeta.
Inoltre il boom lascerà in eredità permanente diversi oleodotti usati per trasportare il petrolio fuori dalla regione, almeno 50 mila pozzi profondi tre chilometri, centinaia di pozzi di smaltimento e un numero indefinito di impianti per lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti. Data la profondità delle formazioni scistose e degli strati intermedi di roccia, sembra improbabile che i fluidi della fratturazione risalgano tanto in alto da contaminare le falde acquifere. Ma nessuno lo sa per certo. È la prima volta che il fracking viene usato in queste condizioni geologiche. Più si sperimenta la trivellazione in profondità, più si scopre che gli strati ritenuti impermeabili possono rivelarsi sorprendentemente permeabili, e che tra le fratture nella roccia si creano inattesi collegamenti.
I liquidi usati per il fracking suscitano particolare preoccupazione perché alcuni di essi contengono sostanze di cui si conosce o si sospetta la tossicità o la cancerogenicità. Centinaia di componenti usati nella fratturazione, alcuni dei quali contengono agenti chimici di cui si sa o si sospetta siano cancerogeni o comunque tossici. Approvata durante l’amministrazione Bush, la cosiddetta "scappatoia Halliburton" (dal nome della società che ha brevettato una delle prime versioni del fracking) esenta l’industria petrolifera dal rispetto della legge che tutela le riserve idriche. Come se non bastasse, i produttori non sono tenuti a rivelare la composizione dei fluidi, perché si tratta di segreti industriali. La regolamentazione è lasciata alla competenza dei singoli Stati, e una legge approvata dal North Dakota nel 2011 afferma, in sostanza, che il fracking è una tecnologia sicura. Fine della discussione.
Ancora: non si sa quanto possano durare i tappi e i tubi di rivestimento dei pozzi. Perdite e rotture possono verificarsi a distanza di decenni, contaminando l’acqua dei pozzi e delle falde in modo anche catastrofico. Quanto alle migliaia di chilometri di condutture di raccolta, anche in questo caso l’incertezza regna sovrana. Lo Stato non ha le risorse per supervisionare un progetto di questa portata, e una volta approvata la costruzione di un condotto le decisioni su dove farlo passare e come assicurarne la manutenzione nei decenni a venire saranno lasciate ai proprietari dei terreni, o più probabilmente ai loro discendenti, e alla compagnia che lo gestisce, sempre che sia ancora in affari.
Se il boom petrolifero del North Dakota fosse una tragedia greca, adesso saremmo all’inizio del secondo atto, quando il coro della prateria lancia l’ennesimo monito.
Eventi venti estremi causati dal riscaldamento globale", titola il numero del’11 luglio 2012 del Minot Daily News, quotidiano conservatore di una cittadina conservatrice sita al margine orientale del distretto petrolifero. Si riferisce ai cambiamenti climatici provocati dall’uomo e a eventi meteorologici estremi come le recenti ondate di caldo e siccità negli Stati Uniti. Finora il North Dakota occidentale è stato risparmiato dalla siccità, ma l’agricoltura è sopravvissuta solo perché coltivatori e allevatori sono stati molto accorti nell’uso di acqua dolce, un bene molto scarso da queste parti. Oggi i proprietari terrieri temono che l’industria petrolifera svuoti le falde acquifere. Chiedono che l’acqua per il fracking sia raccolta dal Missouri e non dalle falde. In ogni caso, nella regione del boom la siccità potrebbe continuare per decenni, prolungata e intensificata dall’uso dei combustibili fossili. Se è vero che non esistono pasti gratis, un banchetto così abbondante non avrà un prezzo troppo alto da pagare?
Il North Dakota potrebbe ancora trarre vantaggi duraturi dal boom. Le royalties versate dalle compagnie petrolifere hanno fruttato allo Stato un incasso di oltre due miliardi di dollari in poco più di un anno. Non si sa ancora come sarà speso questo denaro, anche se si pensa di reinvestirne una parte nel distretto petrolifero, per realizzare nuove strade, linee elettriche, posti di polizia e di vigili del fuoco, scuole, ospedali e strutture ricreative.
Un’altra possibilità è investire almeno parte dei fondi nella spesa sociale e nello sviluppo economico sostenibile. Credere che il vecchio stile di vita possa sopravvivere intatto significa ignorare i laceranti cambiamenti che hanno già trasformato questo angolo di prateria. Ma lo Stato potrebbe utilizzare la ricchezza del petrolio per lasciarsi definitivamente alle spalle il continuo alternarsi di prosperità e crisi, sfruttando una risorsa naturale abbondante e inesauribile: il vento. Secondo l’American Wind Energy Association il North Dakota è il sesto Stato del paese per disponibilità di risorse coliche, tanto che nel 2010 Google lo ha scelto per il suo primo investimento in una centrale eolica su scala commerciale.
Nel frattempo, per altri 25 anni o forse più, il distretto petrolifero offrirà migliaia di posti di lavoro per addetti ai pozzi, operai edili e camionisti. Per persone come Susan Connell cercare di barcamenarsi tra tante piccole opportunità è meglio che non averne nessuna. A parte i guadagni, che però non sono costanti, e l’orgoglio di riuscire a far bene il proprio mestiere, Susan spiega che la sua vita le da soddisfazioni meno materiali, più impalpabili, e che con il tempo lei ha imparato ad apprezzarle. «Sono su un pozzo, è notte e sono sola», racconta. Il cielo stellato sulla testa, le fiammate di gas in lontananza, a volte l’urlo lontano di un coyote. Susan è sulla passerella, a una certa altezza da terra, e apre il portellone di un serbatoio che raccoglie acqua salina proveniente dalle viscere del sottosuolo, da migliaia di metri di profondità, nel bei mezzo del continente nordamericano. Si piega in avanti e fa un grande respiro. «Sembra proprio di sentire l’odore del mare», dice.