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 2013  febbraio 26 Martedì calendario

IL CREPUSCOLO DEGLI DEI MINORI

Sarà lo 0,4, sarà lo 0,5, sarà quel che sarà: ma dopo otto legislature e a un passo dal trentennale, Gianfranco Fini passa dalla condizione di presidente a quella di sfrattato dalla Camera dei deputati. I provvisori risultati serali non lasciavano nemmeno spazio alla speranza, colpa degli elettori futuristi - se mai ce ne sono stati al di fuori delle ricerche demoscopiche - e di quelli di Pier Ferdinando Casini: secondo i complicati meccanismi della legge elettorale, l’Udc avrebbe dovuto superare il due, da cui s’è invece tenuto abbondantemente lontano, per consentire a Futuro e libertà di infilare nel palazzo almeno uno dei suoi. Niente da fare. Nemmeno per Fini, che fece ingresso a Montecitorio nell’estate del 1983, quando era un bimbo, aveva trentuno anni. Per dare un’idea del tempo passato, era legislatura che avrebbe visto Bettino Craxi alla presidenza del Consiglio per il governo che resse clamorosamente per quattro anni (i più giovani nemmeno sapranno quello di cui si parla). All’epoca, Fini militava nel Movimento sociale di Giorgio Almirante, e trent’anni non sono passati per nulla. Nel frattempo Fini ha cambiato tutto, il nome al partito, la moglie, le posizioni politiche in un autoribaltamento reiterato e spettacolare, per via del quale finirà incredibilmente con l’essere l’unico a morire democristiano (mentre Casini da democristiano sopravvive al Senato nelle liste di Mario Monti), ieri ombroso e ostile: «Ha perso l’Italia. Il peggio deve venire».

C’è però da dire che - sempre che finisca qui - Fini abbandona al culmine di una carriera che lo ha portato a essere l’ultimo leader del Msi, l’unico di An, di Fli si vedrà, probabilmente l’ultimo capo di una destra che non gli sopravvive. E c’è da aggiungere che a ogni tornata ci tocca di salutare qualcuno che pareva eterno. O molto potente, come Antonio Di Pietro, altro dissipatore professionale, passato dal favore del 99 per cento degli italiani, in corso di Mani Pulite, al vassallaggio di Antonio Ingroia. Anziché trent’anni qui sono stati venti, infine sfumati in una coalizione a rischio schizofrenia, coi magistrati più bellicosi e suggestivi degli ultimi anni (c’era anche il movimento di Luigi De Magistris), con tutta la sinistra radicale già eliminata dalla vocazione maggioritaria di Walter Veltroni che nel 2008, per emendarsi dalle deliranti immagini lasciate da ulivi e unioni - i famosi caravanserragli del povero Romano Prodi - se ne andò per conto proprio. E raggiunse anche un risultato che oggi il Pd si bacerebbe i gomiti. Veltroni salvò giusto Di Pietro, che ancora godeva di una fama e di un consenso. Ora l’opera è completata: liquidata l’Italia dei valori, fucina di tante speranze e di qualche mascalzone, Di Pietro saluta e torna al campicello, non proprio come Cincinnato, ma ha cani, capre e cavalli, oltre alla terra per cui ha vera passione. Ovvio che oggi faccia più notizia il flop di Antonio Ingroia (per nulla autocritico: tutta la colpa, ha detto, è del Pd, che ha perso due volte, la seconda non alleandosi con Rivoluzione civile), il quale in due decenni di inchieste di mafia s’era conquistato unA fama che si sarebbe giurato superiore al due e mezzo per cento, ma è il tramonto di Di Pietro il più impressionante.

Ognuno, nel proprio tracollo, si porta dietro qualche personaggio di secondo piano che però aveva vissuto momenti di una certa centralità. Con Fini è il caso di Italo Bocchino, di Fabio Granata, di Chiara Moroni, la figlia di Sergio, socialista suicida nel 1992 dopo essere finito in Tangentopoli. È il caso di Flavia Perina, ex direttore del Secolo XIX, che fece un giornale meticcio e bello e che aprì la strada a Fini, il quale però quelle idee non dimostrò di padroneggiarle più di tanto. Con

Tonino falliscono il ritorno in Parlamento i leader della sinistra estrema e sempre più declinante: Oliviero Diliberto del Partito dei comunisti italiani, Paolo Ferrero di Rifondazione comunista, Angelo Bonelli dei Verdi. Se si pensa ai nomi di quei partiti, se si pensa all’attrattiva che ebbe la magistratura più nerboruta, e se si guarda a quella percentuale lì, due per cento circa, vengono i brividi.

Se ne va anche Guido Crosetto, simbolo vivente di quanto sia stata coraggiosa e degna, ma inutile, la guerra intestina a Silvio Berlusconi. Trionfano i più realisti, come Sandro Bondi e Daniela Santanché, e trionfa pure Angelino Alfano, che da segretario sostenitore delle primarie ebbe soprattutto l’appoggio di Crosetto e di Giorgia Meloni - cioè i due fondatori di Fratelli d’Italia -, per poi abbandonarli e far ritorno dal boss. Paga Crosetto, perché, da quanto si capiva ieri sera, la Meloni e pure Ignazio La Russa dovrebbero farcela a riconquistare la seggiola alla Camera. Meno fortuna ha Gianfranco Micciché, uno che ha campato per dei lustri sul 61 a 0 (parlamentari al centrodestra e al centrosinistra) in Sicilia, e che ora al comando di Grande Sud non raccatta che briciole. E così Francesco Storace e Teodoro Buontempo, di modo che la destra più destra, come la sinistra più sinistra, rimanga ai margini. Infine, anche se non interesserà a nessuno, o a pochi, chiudono le elezioni con uno 0,2 anche i Radicali. Si chiamavano, stavolta, Giustizia, Amnistia e Libertà. Avevano candidatO tutti, Emma Bonino, Rita Bernardini, Mario Staderini. E Marco Pannella. Un posto per loro non c’è. Era già successo che il Parlamento restasse senza Radicali. Ma allora sembrava un’eclissi, oggi un tramonto che riguarda un po’ tutti.