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 2013  febbraio 26 Martedì calendario

PIER LUIGI E LA MALEDIZIONE DEL FATTORE K

C’è una canzone che Pier Luigi Bersani adora, e che spiega a perfezione il destino cinico e baro che è capitato in sorte in queste ore al vincitore annunciato. «Come direbbe Vasco Rossi - ha ripetuto più volte Bersani - ci troveremo come le star, a bere wiskey al Roxy Bar, o forse non c’incontreremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai». Il guaio del segretario del Pd è che era pronto al trionfo, ma il trionfo non è arrivato. Ieri notte doveva svolgersi all’Acquario di Roma la festa del centrosinistra al potere e la festa è stata annullata. Che cosa c’era del resto da celebrare? Una vittoria mutilata?
Bersani aveva fatto partire la sua marcia per la gloria tanto tempo fa, successo dopo successo. Bersanizzando un partito balcanizzato. Circondandosi di giovani ben preparati e di sinistra-sinistra, anche visivamente accattivanti come Alessandra Moretti che lo ha paragonato a Cary Grant. Si era battuto coraggiosamente, tra tanti scetticismi, per fare le primarie. Le ha fatte. Le ha superate con un’ottima prova. Poi è riuscito perfino a stabilire un buon rapporto con lo sconfitto Renzi fumando un sigaro della pace durante un pranzo romano. E chi lo ferma più uno così, era la sensazione di tutti. Di quelli che già disegnavano organigrammi ministeriali - chi andrà dove, ora che governa Pier Luigi? - e di quelli che guardavano da fuori la marcia trionfale di un segretario tenace e insieme sdrammatizzante, riformista ma nazional-popolare, e uno che ha detto di se stesso: «Io sono moderatamente bersaniano».
IL CARBURANTE
Il problema è che la benzina non è stata sufficiente per portarlo in agilità a Palazzo Chigi. Il rifornimento di carburante emozionale che fece nella stazione di servizio di famiglia, a Bettola, in provincia di Piacenza, e ieri ha perso anche nel suo paesino natale, non s’è rivelato abbastanza fluido per condurlo a una destinazione storica. Quella sintetizzata dal tormentone che il segretario Pd ha ripetuto in questi mesi: «Ora tocca a noi». Se gli toccherà, gli toccherà poco e male di entrare finalmente nella stanza dei bottoni. Bersani doveva finalmente sfatare il Fattore K e diventare sull’onda del voto popolare (come non accadde a D’Alema diventato premier per accordi parlamentari) il primo presidente del consiglio che viene dal Pci e l’unico ex comunista al potere nell’Unione europea del XXI secolo. Ma la storia ha deciso di fargli i dispetti, in alleanza con Berlusconi e Grillo. Il giaguaro da smacchiare doveva chiamarsi Silvio, ma Pier Luigi ha sbagliato smacchiatore.
LA PRIMA OCCASIONE
Se si fosse andati a votare un anno fa, subito dopo il collasso del governo Berlusconi e subito prima dell’avvento del governo Monti - così ieri notte ci si chiedeva al Nazareno, tra i musi lunghi - sarebbe andata meglio? Probabilmente, sì. E adesso Bersani starebbe seduto a Palazzo Chigi. Senza doverlo guardare da lontano. Senza aver dovuto subire quella rimonta berlusconiana che, appena il Cavaliere ha tirato fuori dal cappello il coniglio della restituzione dell’Imu, il segretario democrat ha cominciato a prendere sul serio. Di quella proposta choc qualcuno del giro bersaniano aveva capito la potenza micidiale - «Quello vince un’alta volta» - ma questi orrori e tremori non volevano essere espressi apertamente. Forse perché lo sconfittismo chiama la sconfitta.
E così, è stata la retorica della vittoria - del «tocca a noi», appunto - lo spartito suonato da Pier Luigi il segretario che pareva infallibile, l’usato sicuro dell’«Italia giusta» che avrebbe prevalso sull’Italia delle promesse-spot, del leader che non racconta favole più forte di quello che fa il giaguaro-illusionista e di Grillo che «dal punto di vista lessicale è un fascista» e comunque «un pericolo per la democrazia». Per non dire di Monti: «Un Berlusconi in loden».
LA BIRRA
La pacatezza, il Dna di mediatore e la sensibilità per il disagio sociale sono doti bersaniane che non hanno avuto il riconoscimento che avrebbero meritato. Eppure, per questo comunicatore dell’anti-comunicazione costretto a misurarsi con due show man straordinari (B&G), il format non è stato costruito male. Lui nella parte del santo bevitore (di birra), lui leader modesto che non vuole essere «l’uomo solo al comando», lui che parla bersanese (il tacchino sul tetto, l’«ehi, ragassi, lo strutto dietetico non esiste mica»), lui come Giovanni XXIII («sapeva innovare rassicurando»), lui e Crozza, lui e Prodi. Insomma: poteva andare meglio.
Già lo chiamavano «Presidente», in queste settimane nei suoi giri elettorali su e giù per l’Italia. Ai calabresi che lo osannavano l’altro giorno, ha promesso: «Verrò a festeggiare qui il mio ingresso a Palazzo Chigi». Probabilmente, non andrà.