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 2013  gennaio 25 Venerdì calendario

SCANDALOSA MARGHERITA CONFESSIONI ULTIME DELLA DURAS, SCRITTRICE LIBERTINA


Lo sciovinismo dei francesi può portare a clamorose sviste. L’ultima riguarda Marguerite Duras ed è durata venticinque anni. Tanto c’è voluto agli editori francesi per accorgersi che un’anonima giornalista italiana era riuscita a ottenere un’intervista fluviale con la capricciosa e ruvida scrittrice. È il 1987, quando l’autrice dell’Amante e di Hiroshima mon amour, allora settantacinquenne, apre la porta del suo appartamento parigino di rue Saint-Benoît alla inviata di La Stampa Leopoldina Pallotta della Torre, grazie all’intercessione di Inge Feltrinelli. La Duras la riceve nella sua stanza polverosa, seduta nella sua poltrona, circondata da carte e oggetti. All’inizio la diffidenza spinge la scrittrice a controllare gli appunti della Pallotta, impedendole di prenderne quando è costretta a parlare al telefono. È piccola, minuta, autoritaria. Durante le tre ore di conversazione mangia delle caramelle alla menta che tira fuori da un cassetto senza offrirle. Ha le mani inanellate e guarda la sua interlocutrice con i suoi occhi blu scrutatori. Prima di andare via, la Pallotta le chiede se può ritornare. «Fai come vuoi, ma ho poco tempo» è la risposta laconica.
Le due si rincontreranno in diverse occasioni, stabilendo, poco alla volta, un’intimità complice che trasformerà le loro chiacchiere in una lunga confessione. La famiglia, l’infanzia in Vietnam, l’amante cinese, la Francia, il comunismo, il matrimonio, la scrittura, il cinema, il teatro. L’alcolismo. La Duras parla liberamente, forse pensando che quanto racconta all’italiana non arriverà mai ai lettori francesi. E ha ragione, perché di La passione sospesa, pubblicata l’anno dopo dalla Tartaruga, nulla si è saputo in patria. E il libro, presto, è diventato introvabile.
Adesso, questo testo unico nel suo genere viene tradotto e pubblicato in Francia mentre in Italia è in uscita un altro libro-intervista dal titolo I luoghi di Marguerite Duras di Michelle Porte.
Ma è con l’intervistatrice italiana, morta due anni fa, che la Duras si abbandona, parlando dei suoi amori, di politica, dei suoi gusti sessuali. Impietosa con se stessa e ancora di più con gli altri.
Dell’infanzia in Indocina, dove è nata nel 1914, e ha vissuto fino ai diciotto anni ha un ricordo struggente. «Tutta la mia scrittura nasce lì, nelle risaie, nelle foreste, nella solitudine. Ero una bambina emaciata e sperduta, una piccola Bianca, più vietnamita che francese, il volto bruciato dal sole, sempre scalza, senza orari, senza educazione.
«Ho rimosso per anni gran parte di quella vita. Poi, all’improvviso, con violenza, le cose vissute con l’incoscienza dei miei dodici anni sono tornate a visitarmi. Ho ritrovato intatte la miseria, la paura, l’ombra della foresta, il Gange, il Mekong, le tigri, i lebbrosi che mi terrorizzavano... E qualcosa di selvaggio rimane dentro di me ancora oggi. Una specie di attaccamento animale alla vita».
In Cambogia, la madre, da tempo vedova, acquista la concessione di una risaia che non potrà mai coltivare per le continue inondazioni del mare. «Ci ha lavorato vent’anni, invano, e ha finito la sua vita povera e sola sui bordi della Loira».
Nel 1930 Marguerite si trasferisce a Saigon e si innamora di un giovane cinese che sarà il protagonista di L’Amante. Il libro che le darà fama internazionale (un milione e mezzo di copie vendute in Francia, tradotto in 26 lingue) e le varrà il Premio Goncourt. «Fino ad allora ero stata una clandestina, vivevo dei diritti d’autore tedeschi e inglesi... L’Amante è un testo selvaggio, Uscito dall’oscurità in cui avevo relegato la mia infanzia. Poi a un certo punto mi sono detta: perché adesso che mia madre non c’è più non raccontare la verità? Di quell’uomo ricordo il suo corpo cinese che non mi piaceva, ma faceva godere il mio... La forza del desiderio era totale, impersonale, cieca, al di là del sentimento. Di lui amavo il suo amore per me e quell’erotismo, acceso ogni volta dalla nostra profonda ambiguità».
Nel 1932 Marguerite si trasferisce a Parigi, sposa Robert Antelme e comincia a scrivere. «Avevo bisogno di fare parlare il silenzio sotto il quale mi avevano oppressa».
Durante l’occupazione nazista partecipa col marito alla Resistenza e dopo la guerra si iscrive al Partito Comunista. «L’ho fatto perché volevo uscire dalla solitudine, per entrare in un gruppo, una coscienza collettiva. Ero a conoscenza dei Gulag, dei Pogrom del ’34, ma iscrivermi significava riconoscermi nel destino del Partito e liberarmi del mio. Così la mia sofferenza, il mio dolore, diventavano una sofferenza di classe... Ora sono una comunista che non si riconosce nel comunismo».
Infatti nel 1950 viene espulsa per la sua vita dissoluta. Nel 1942 ha conosciuto Dionys Mascolo, divorzia dal marito e ci fa un figlio, Jean, nel 47.
Il primo romanzo, Gli Impudenti, lo porta a Raymond Queneau, editor di Gallimard, che lo rifiuta pur dicendole «Madame, lei è una scrittrice!» e l’anno seguente le pubblica La vita tranquilla.
«Scrivo per essere divulgata, per massacrarmi e, in seguito, per ritirarmi, in modo che il testo prenda il mio posto e io esista meno. Riesco a liberarmi di me con l’idea del suicidio e della scrittura».
Quanto ai suoi gusti letterari, ama la Morante e Colette, ma è dura con tutti i mostri sacri delle lettere francesi.
«Marguerite Yourcenar? Le memorie di Adriano è un grande libro, il resto, a partire dagli Archivi del Nord, mi sembra illeggibile. L’ho abbandonato a metà. Jean-Paul Sartre? Credo che sia il responsabile del deplorevole ritardo culturale e politico della Francia. Albert Camus? Come tutti i contemporanei, è noioso».
Al di là dei giudizi sferzanti, la scrittrice è molto lucida e autentica nel raccontare il calvario per uscire dall’alcolismo, che la affliggeva dai quarant’anni. Tre tentativi falliti. «Fino a quando non sono entrata all’ospedale americano di Neully, dove, in tre settimane di allucinazioni, deliri, urla, sono riuscita a tirarmi fuori. Da allora sono passati sette anni, eppure so che potrei ricominciare domani».
Parla anche del suo convivente, Yann Andréa, giovane, gay, compagno di bevute e di vita. «Lui mi scriveva dopo aver letto i miei libri. Due anni di lettere a cui non rispondevo. Poi ha bussato alla mia porta e io gli ho aperto. Con lui ho scoperto che la cosa peggiore che può accadere nella vita è non amare».