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 2013  gennaio 25 Venerdì calendario

SAPEVATE CHE ALITALIA CI È COSTATA COME L’IMU (E NON È SERVITO A NIENTE)?


Sapete a chi dovete l’Imu sulla prima casa che tanto ci ha fatto soffrire? A Silvio Berlusconi e a quella demagogica Follia, spacciata per patriottismo, montata per salvare l’italianità dell’Alitalia. Se confrontate il gettito della nuova imposta con quanto è costata allo Stato, cioè a tutti noi, la cervellotica Operazione Fenice, il conto è pari: quattro miliardi di euro. Abolizione dell’Ici e italianità dell’Alitalia furono il duplice grimaldello propagandistico che secondo gli esperti elettorali nel 2008 riportò Berlusconi a Palazzo Chigi. Cinque anni dopo, come in un eterno maleficio, torna in campagna elettorale l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, che il governo Monti e stato costretto a introdurre per compensare l’abolizione dell’Ici promessa allora, mentre l’ex Compagnia di bandiera non è affatto risorta dalle ceneri come l’uccello mitologico e, se andrà bene, finirà a quei «colonialisti» d’Oltralpe cui il governo Prodi avrebbe venduto a condizioni assai migliori di quelle che oggi si profilano. Le promesse purtroppo non pagano i debiti, ma – si sa – per uno «scoop» televisivo Berlusconi venderebbe l’anima.
«Pittoresco capitalistico» fu definito dalla stampa internazionale il trafelato affannarsi del candidato premier alla ricerca di un gruppo di imprenditori «patrioti» disposti a versare 847 milioni per strappare la Compagnia alle grinfie dei francesi, dopo il fallimento di una cordata patrocinata dall’ex presidente della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre e dall’ex boiardo pubblico Giancarlo Elia Valori, per quella vicenda imputati di aggiotaggio.
«Alzi la mano chi non sarebbe pronto a investire nell’Alitalia», fece cabaret il Cavaliere il 7 giugno 2008 dinanzi ai giovani industriali riuniti a Santa Margherita Ligure. La sala plaudente si fece repentinamente sorda e grigia e nessuno ebbe il coraggio di alzare né una mano né un dito. Compresa l’allora presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, che poi aderì al manipolo di salvatori della Patria. Perché tornato a Palazzo Chigi al posto di Prodi, il Cavaliere non si diede per vinto e sguinzagliò una serie di emissari, dal fido factotum Bruno Ermolli, il Gianni Letta del nord, ai banchieri Corrado Passera e Gaetano Micicchè, per mettere insieme, guidata da Roberto Colaninno, la cordata dei «Cavalieri bianchi» disposti a sfidare la legge di gravità oltre a quella del mercato. Ne arruolarono sedici, promettendo, come al solito, la pubblicizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti. Oltre a dividendi di altra natura: intanto la benevolenza del leader, che si apprestava a governare per altri cinque anni. E poi favori, magari ricchi appalti, per esempio sulle opere pubbliche previste per l’Expo di Milano del 2015 e, come poi si è visto, anche nella sconfinata prateria della Grandi Opere in deroga a tutte le leggi, come gli investimenti buttati dalla finestra per il G8 della Maddalena, che poi si tenne all’Aquila terremotata.
«L’interferenza della politica in Italia» disse il patron di Ryanair Michael O’ Leary «è uno sport folle». Si iscrissero comunque alla confraternita, oltre alla Marcegaglia, Tronchetti Provera, Gavio, Benetton. Altri tre «coscritti», se non nei consigli d’amministrazione, potrebbero incontrarsi nelle aule dei tribunali, se non nelle patrie galere. L’ultimo del club patriottico finito agli arresti per le accuse di corruzione, concussione e associazione per delinquere è Emilio Riva, il padrone dell’Ilva. Prima di lui era finito in ceppi con l’accusa di truffa aggravata Francesco Caltagirone Bellavista, mentre l’altro patriota Salvatore Ligresti le sue prigioni le aveva già fatte ai tempi di Tangentopoli e oggi è di nuovo indagato anche in seguito al dissesto del suo gruppo. «Magliana ai magliari», ci disse in quei giorni uno degli ex amministratori della Compagnia, pur corresponsabile del precedente disastro industriale.
Dal 12 gennaio scorso i patrioti possono vendere le loro azioni e l’acquirente naturale dovrebbe essere l’Air France-Klm, primo azionista dell’ex Alitalia col 25 per cento. Ma per ora ha negato il suo interesse. Sembra che giochi al gatto col topo: intanto non pagherebbe in denaro, ma offrendo in cambio sue azioni, come si dice carta contro carta, dando ai titoli italiani un valore molto più basso rispetto agli 847 milioni pagati dai patrioti nel 2008. Pare un 40 per cento in meno, quindi con una perdita complessiva di oltre trecento milioni. Un bel prezzo per pagare la benevolenza pelosa dell’ex premier.
Ma se per i patrioti non ci piange troppo il cuore, ci sanguina invece per il denaro pubblico gettato nel calderone, di cui Berlusconi dovrebbe in qualche modo rendere conto se qualcuno osasse fargli le domande giuste negli insopportabili teatrini televisivi. Una contabilità la ha meritoriamente tentata Antonella Baccaro sul Corriere della Sera, giungendo alla conclusione che il «salvataggio» è costato alla collettività almeno tre miliardi 200 milioni. Ma il conto potrebbe essere ben più salato, persino oltre i quattro miliardi dell’Imu che abbiamo pagato sulla prima casa. Un miliardo e mezzo sono i debiti che la nuova Alitalia ha lasciato nella bad company della vecchia Alitalia e che cinque anni fa i francesi si sarebbero accollati; 445 milioni il rimborso statale delle obbligazioni emesse nel 2002 e 300 milioni le obbligazioni di privati cittadini; 300 milioni di prestito pubblico; 700 milioni per la cassa integrazione e la mobilità di quattromila lavoratori. Ma questa cifra è sicuramente maggiore perché i sette anni di ammortizzatori sociali sono stati estesi ai lavoratori di altre compagnie aeree in crisi. Quindi, per l’appunto, 3,2 miliardi di costo minimo, 53 euro per ogni cittadino italiano.
Nel frattempo, la nuova Alitalia ha messo insieme ancora centinaia di milioni di perdite, nonostante l’ulteriore regalo di Berlusconi, che concesse il monopolio sull’allora redditizia tratta Roma-Milano, con una deroga triennale ai limiti Antitrust scaduta da poco. Ma nel frattempo la concorrenza dell’Alta velocità ferroviaria è diventata vincente con i treni che uniscono le due capitali in meno di tre ore, a tariffe concorrenziali. Nessuno l’aveva previsto? Ha un bel dire l’amministratore delegato della nuova Alitalia Andrea Ragnetti di essere vittima di «scopi propagandistici e di parte, anche alla luce del momento pre elettorale». Non sapeva forse dello «sport folle» della politica sull’Alitalia, durato per tutta la Prima Repubblica e perpetuato nella Seconda, con sistemi, se possibile, ancora peggiori? Berlusconi sostiene Roberto Maroni per la presidenza della Regione Lombardia. Ragnetti può perciò cominciare a tremare, perché dovrebbe ricordare che l’attuale segretario della Lega era a capo della lobby varesina di Malpensa, che con la difesa sconsiderata dell’hub lombardo costò all’Alitalia non meno di quattro miliardi.
Mai più un euro pubblico per l’Alitalia. Questo dovrebbe essere lo slogan elettorale responsabile di chiunque abbia a cuore il Paese. Ma non c’è troppo da contarci. Persino nelle dichiarazioni di un sottosegretario ai Trasporti del liberistissimo governo Monti abbiamo sentito aleggiare la Cassa depositi e prestiti, cioè ancora denaro pubblico, nonostante il suo statuto preveda che gli investimenti li possa fare solo in imprese «in una stabile situazione di equilibrio finanziario».
E qualche bello spirito continua a lagnarsi perché l’Italia della politica e del capitalismo alle vongole non attira investimenti dall’estero.
Alberto Statera