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 2013  gennaio 25 Venerdì calendario

I LEGHISTI DELLA PORTA ACCANTO E LA ROTTAMAZIONE INCOMPIUTA

Matteo Bianchi, classe 1979, è il sindaco di Morazzone, 4 mila anime in provincia di Varese. È entrato nella Lega a 16 anni e nel partito è portato sugli scudi perché ha «de-Equitalizzato» il suo Comune. In sostanza ha disdetto il contratto con Equitalia e avviato la gestione in proprio della riscossione dei tributi. «Il gettito è rimasto lo stesso — racconta — ma l’approccio verso il contribuente è cambiato radicalmente. Ora è a misura d’uomo, non si usano più metodi vessatori». Emanuele Prataviera è dell’85, è diventato militante leghista anche lui da minorenne e da allora ha ricoperto diversi incarichi: assessore alla Viabilità della provincia di Venezia e da due anni segretario provinciale della Lega Nord Veneto Orientale. Da amministratore aveva assegnato la targa alle biciclette regalate ai bambini della prima elementare e poi aveva introdotto le tovagliette con i quiz della patente nelle sagre della Pro Loco. Patrizia Bisinella ha 42 anni, è consigliere comunale a Castelfranco Veneto e in virtù della laurea in Legge e di una spiccata fiducia nel federalismo ha già collaborato con i gruppi parlamentari del Carroccio. È entrata nella Lega dopo Tangentopoli, nella sua città si occupa anche di pari opportunità e pensa che il tempo del celodurismo bossiano sia finito. «Basta vedere come nella testa di lista al Senato in Veneto siamo quattro donne su cinque. Dopo gli anni del maschilismo con Maroni sta cambiando tutto. E comunque nel suo staff c’è stata sempre un’ampia presenza femminile».
Bianchi, Prataviera e Bisinella sono solo dei tre dei prossimi nuovi parlamentari del Carroccio che alla fine, senza farsene un vanto, ha rottamato più di altri partiti. L’identikit del parlamentare leghista 2013 sarà parzialmente diverso dal passato, quasi tutti vantano una lunghissima militanza di partito, negli anni hanno fatto la gavetta negli enti locali e sembrano avere un atteggiamento più pragmatico dei loro predecessori. Più sognanti che barbari. Dall’era dei Borghezio si cerca di passare a quella del leghista della porta accanto, che condivide le battaglie chiave del movimento come il federalismo e il sindacalismo di territorio ma è meno ossessionato dalla ricerca di un’identità politico-culturale. E accetta di contaminarsi con il resto della società e a un ragazzo disoccupato da anni non proporrebbe «solo di venire a Pontida». Commenta Gianni Fava, mantovano, uno degli uomini più vicini a Maroni: «I candidati sono gente rodata e al tempo stesso leale verso il movimento, ci servono parlamentari che sappiano fare squadra perché non sarà una legislatura facile, tutt’altro». Quasi tutti i nuovi eletti conserveranno i loro incarichi sul territorio, solo i sindaci di Comuni oltre i 5 mila abitanti si dovranno dimettere.
Si potrà obiettare che la Lega ha attinto da sempre al vivaio politico rappresentato dagli amministratori locali, il suo centrocampo, stavolta però avviene in concomitanza con lo storico cambio al vertice tra Umberto Bossi e Bobo Maroni e quindi giocoforza la staffetta si carica di altri significati, di una discontinuità di linguaggi e simboli. Da un punto di vista sociologico i mondi da cui si pesca sono sempre gli stessi: la piccola impresa, i commercialisti di provincia, gli impiegati in banca e negli enti locali ai quali si aggiungono diversi giovani laureati per lo più in materie umanistiche. Il capolista del collegio Veneto2, Marco Marcolin sindaco di Cornuda (Treviso), ha un’azienda di trasporti che si chiama La Settentrionale, Giampaolo Pesenti che si presenta nel collegio Lombardia 2 è un piccolo imprenditore metalmeccanico a Zogno, il segretario di Lodi Guido Guidesi è un funzionario della Regione Lombardia e il pavese Marco Maggioni lavorava in banca.
Secondo i dati di fonte ufficiale tra Trentino, Friuli, Emilia, Veneto e Liguria su 414 candidati solo 48 sono parlamentari uscenti e comunque non tutti tra questi sono stati posizionati in modo da essere riconfermati. La proporzione tra uomini e donne è stimata al 50%. In base alle percentuali che oggi i sondaggi assegnano alla Lega i neoeletti in Parlamento saranno circa 60, dei senatori uscenti se ne dovrebbero salvare solo 5-6 e di deputati una decina. «E l’elettorato che chiede il rinnovamento — dice il triestino Massimiliano Fedriga, uno dei pochi riconfermati e che come capolista al Senato in Friuli sostituirà nientemeno che Bossi —. E noi in fondo abbiamo fatto delle primarie in stile Lega. Niente di mediatico ma le candidature sono state filtrate dal basso e discusse nelle sezioni dove gli iscritti hanno potuto dire la loro». E comunque anche chi si ricandida «si presenta agli elettori con il rendiconto di ciò che ha fatto». Fedriga ci crede al punto che ha messo su addirittura un format teatrale, l’ha chiamato «L’esame» e lo porta in giro nei teatri con una sorta di carro di Tespi. Racconta cosa ha fatto a Roma, proietta filmati e poi dà il via alle domande e risposte con il pubblico. Si parte da Spilimbergo ma sono già previste repliche nei teatri di Sacile e Udine.
Ma il rinnovamento dei gruppi parlamentari è davvero un esempio virtuoso di circolazione delle élite o alla fine è solo un regolamento di conti all’interno tra maroniani e Cerchio magico? Come spesso avviene la verità forse sta nel mezzo perché è chiaro a tutti che il passaggio da Bossi a Maroni non è stato assolutamente indolore, ha diviso vecchie amicizie, ha spaccato piccole comunità. Basta leggere in controluce questa dichiarazione del governatore veneto Luca Zaia per avere la sensazione che la formazione delle liste non è stato un pranzo di gala: «Il segretario ha avocato a sé ogni possibilità di stesura delle liste e il consuntivo lo vedremo alla fine, se la squadra sarà stata vincente oppure no». Tradotto: se perdiamo, poi facciamo i conti. Leggendo i nomi si ha l’impressione che il rinnovamento sia stato quantomeno a macchia di leopardo. In Piemonte il governatore Roberto Cota è riuscito a congelare le posizioni e la rottamazione è stata quantomeno rinviata. In Lombardia gli avvicendamenti sono avvenuti sotto il segno dell’avanzata dei Giovani Padani, la falange legata a Matteo Salvini subentrato come segretario nientemeno che a Giancarlo Giorgetti, «il piccolo Gianni Letta» di Cazzago Brabbia. Ancor più drastico il rinnovamento è stato invece in Veneto dove Tosi ha rottamato quanti più bossiani poteva, non ha fatto prigionieri forse con la sola eccezione del bossiano Massimo Bitonci che capeggia la lista per il Senato. Hanno pagato non solo il tesoriere nazionale Stefano Stefani e Manuela Dal Lago ma anche Alessandro Montagnoli, Francesca Martini, Giampaolo Vallardi e persino l’ex capogruppo al Senato Federico Bricolo, generando qualche mal di pancia a Vicenza e Treviso e tra i supporter di Zaia. A differenza degli altri partiti gli esodati non dovrebbero avere problemi perché la leggenda dice «che un deputato leghista il lavoro ce l’ha sempre».
Il ricambio più o meno spontaneo si confonde con il giudizio su Berlusconi. I rottamatori sono anche quelli più critici verso il Cavaliere. Perché mentre i lombardi pensando di ripagarsi con la possibile conquista della Regione, i veneti temono di lavorare in perdita e alla fine di dover solo contabilizzare la perdita della pole position leghista tra i partiti della regione. Maroni ai nordestini ha promesso che conquistato il Pirellone partirà contro Roma un attacco a tre punte (Cota, Zaia e lui) e l’idea della macroregione del Nord ma per i militanti rimane un mistero perché la parola d’ordine del 75% delle risorse da lasciare sul territorio sia stata lanciata solo adesso e Cota o Zaia non ne abbiano fatto menzione finora pur stando al potere dal 2010.
Si dice che Maroni avrebbe voluto far di più, aprire le liste alla società civile nordista e non a caso dal megaconvegno del Lingotto in poi aveva cercato di tessere i rapporti con le associazioni di rappresentanza senza le scomuniche del passato e senza creare i finti sindacati alla Rosi Mauro. In quest’ottica il canturino Nicola Molteni, deputato confermato, è stato incaricato di seguire i professionisti e al convegno torinese avevano preso persino la parola due big come Raffaele Bonanni e Giuseppe Guzzetti, che una volta sarebbero stati perlomeno fischiati. Le elezioni però sono arrivate troppo presto e tutto è stato rinviato alle prossime tornate. Così ci si avvia a una campagna elettorale metà vecchia metà nuova, la trovata del 75% delle tasse che devono restare il Lombardia è facile da raccontare, ma per il resto sul piano programmatico non ci sono molte novità. Sulle pagine della Padania — che ha cambiato direttore — abbondano le foto di Maroni (in un sol giorno anche 9) e si agita il pericolo che i cinesi costruiscano ovunque supermercati, ma non pare proprio che la Lega possa ambire ad uscire dalla sua constituency tradizionale. Anzi, almeno del caso del Veneto bisognerà accontentarsi di un atterraggio morbido perché si parte dalla stratosferica e irripetibile vetta del 35% di voti raccolti nelle regionali del 2010.
Dario Di Vico