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 2013  gennaio 25 Venerdì calendario

ARTICOLI SUL CASO MPS DAL CORRIERE DELLA SERA DI VENERDI’ 25 GENNAIO 2013

SERGIO RIZZO
LE COLPE NON VISTE - Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena.
Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie.
Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria.
Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo.
Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro.
Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro.
Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente.
Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici.
E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo.
Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica.
Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.
Sergio Rizzo

MARIA ANTONIETTA CALABRO’
GRILLI: I CONTROLLI? DI BANKITALIA. IL MINISTRO ANDRA’ IN PARLAMENTO — Dopo il tonfo di mercoledì e le accuse della Banca d’Italia sulla documentazione che sarebbe stata tenuta nascosta da Giuseppe Mussari, il titolo Monte dei Paschi ha archiviato un’altra giornata di passione in Piazza Affari dove ha chiuso in ribasso dell’8,2% tra scambi monstre che hanno riguardato il 7% del capitale. Lo scandalo dei derivati che travolto la banca senese portando alle dimissioni dalla presidenza dell’Abi Giuseppe Mussari, ex numero uno di Rocca Salimbeni, ha infiammato la campagna elettorale e acceso un faro su vigilanza e controlli. I toni della giornata si sono andati via via riscaldando. «Non è un fulmine a ciel sereno, sappiamo da un anno che la banca è in una situazione problematica. Non ho evidenza di problemi simili in altre banche. Sui controlli dico soltanto che spettano a Banca d’Italia» aveva affermato, in mattinata il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli. Dichiarazioni che sono state interpretate come un attacco alla Banca d’Italia.
In una giornata ad alta tenzione, la misura della questione Mps la trova il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «È una vicenda grave, bisogna occuparsene». «Io ho fiducia nella Banca d’Italia che se ne sta occupando», ha scandito Napolitano a Torino per la messa in ricordo di Gianni Agnelli. Così nel pomeriggio, il portavoce del Tesoro ha tenuto a sottolineare che non c’è stato «nessun attacco alla Banca d’Italia» da parte del titolare di via XX Settembre (al dicastero, peraltro, compete la sorveglianza sulle fondazioni). E che «i rapporti del ministro del Tesoro con il governatore e con l’Istituto non sono ottimi, sono eccellenti».
Il premier Monti è intervenuto da Davos assicurando, in una telefonata al presidente della Camera Gianfranco Fini, che il governo, nella persona del ministro Grilli, riferirà in Parlamento. E ha difeso l’operato della Banca d’Italia, allora presieduta dall’attuale numero uno della Bce, Mario Draghi: «Non si può parlare di fallimento della supervisione bancaria».
Il Tesoro comunque ha voluto sottolineare in una nota ufficiale che «ad oggi», la sottoscrizione dei cosiddetti Monti bond «non è avvenuta, perché non si sono ancora verificate alcune delle condizioni necessarie per completare l’operazione». In particolare, «occorre in primo luogo l’adozione da parte dell’assemblea degli azionisti di Mps, convocata per oggi venerdì 25 gennaio, della delibera che delega il consiglio di amministrazione ad effettuare l’aumento di capitale». In secondo luogo, ci vuole «il parere della Banca d’Italia che dovrà pronunciarsi, tra l’altro, sull’adeguatezza patrimoniale attuale e prospettica dell’Istituto di credito».
Monti ha bollato il riferimento all’ipotesi che la tassa Imu finanzi il salvataggio di Mps come una «confusione creata per evidenti ragioni». Paradossalmente gli ha dato ragione lo stesso Silvio Berlusconi che è arrivato a sostenere che se entità del prestito e ricavi della tassa sulla casa sono equivalenti è solo per una «coincidenza». Mps, ha aggiunto candidamente Berlusconi, che ne è il primo correntista, è una banca a cui «voglio bene». Il presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, ha rassicurato sul fatto che «il caso non consente assolutamente generalizzazioni: il sistema bancario è sano». E il nuovo presidente dell’Abi va trovato «subito».
M. Antonietta Calabrò

FAUSTO GEREVINI
QUEI PRESTITI PER TREDICI MILIONI ALLA MOGLIE DI MUSSARI — Possibile che nel portafoglio crediti di una controllata di Banca Mps ci siano in pegno quaranta società delle energie rinnovabili, in parte scatole vuote o di proprietà ignota? Certo i problemi a Siena sono altri, riguardano la finanza e le sue deviazioni. Ma resta sempre uno dei mestieri fondamentali della banca saper erogare prestiti.
Per esempio, nella categoria delle piccole e medie imprese, un ottimo cliente è l’Hotel Garden, un quattro stelle vicino al centro di Siena, realizzato sulla ristrutturazione di una villa del diciottesimo secolo. L’Hotel Italia, invece, è un tre stelle che appartiene al medesimo proprietario, così come il complesso agrituristico di Villa Agostoli, 10 villette e appartamenti a 5 chilometri dal centro. L’imprenditrice che controlla il piccolo gruppo turistico-immobiliare si chiama Luisa Stasi e la conoscono bene anche in Banca Mps. Non solo perché è la moglie dell’ex presidente della Fondazione Mps, della banca e dell’Abi, Giuseppe Mussari. Ma anche perché chi segue la sua «pratica» sa che ha un’esposizione di circa 13 milioni. Nulla di preoccupante perché sono posizioni create da tempo, sono mutui fondiari con garanzie reali sugli immobili. Però non sfugge all’interno della banca l’anomalia di una concentrazione del rischio: il 100% dell’esposizione della signora e dei suoi Hotel è con il Monte dei Paschi. E anche quando non c’è un’attività imprenditoriale (alberghi, agriturismo) alla base del prestito, è sempre e solo la banca senese o una sua controllata a prestare soldi alla Stasi. Nessuna diversificazione: i dipendenti Mps sanno che l’imprenditrice è Mps-dipendente. Dunque è interesse anche della banca che gli hotel di Luisa Stasi siano sempre pieni.
E le energie rinnovabili? L’acceleratore è stato schiacciato a fondo corsa. I finanziamenti sono piovuti quasi come gli incentivi pubblici che sono stati il vero motore del business. Per anni la banca toscana ha dirottato risorse sulla green economy dove accanto a imprenditori seri che realizzano impianti ci sono anche molti opportunisti che creano solo scatole vuote acchiappa-soldi.
Se il gruppo di Siena ha selezionato bene i suoi clienti non ci saranno problemi per la “Mps Leasing & Factoring-Banca per i servizi finanziari” nella quale, secondo fonti interne, sarebbero concentrate una quarantina di posizioni di aziende di energia elettrica. Quasi tutte con la caratteristica di avere il 100% del capitale in garanzia a Mps. Tra i tanti, ha ottenuto prestiti una società che ha come principale azionista la Sopaf della famiglia Magnoni. Ma anche due aziende del teramano riconducibili a Giampiero Samorì, l’avvocato modenese che avrebbe voluto partecipare alle primarie del Pdl.
La Vegagest sgr che ha bilanci tutt’altro che floridi ed è controllata da due casse di risparmio, Ferrara e San Miniato, ha dato in garanzia tre aziende del settore. Ma, raccontano negli uffici Mps, anche il gruppo Avelar-Renova, controllato dall’oligarca russo Viktor Vekselberg, ha trovato sponda a Siena. Un gruppo cinese ha dato in pegno il 100% di una sua controllata in provincia di Modena, mentre a Treviso i soldi di Siena sono andati a una società che fa capo a una misteriosa holding panamense.
Mario Gerevini

STEFANIA TAMBURELLO
IL GOVERNATORE: HANNO MENTITO PIU’ VOLTE — Mercoledì l’accusa di aver mentito e nascosto carte e verità, indirizzata ai responsabili della passata gestione Mps. Ieri la precisazione sulla chiamata in campo per la titolarità dei controlli fatta dal ministro dell’Economia, Vittorio Grilli. «Non c’è alcun contrasto fra la Banca d’Italia e il Tesoro ma piena collaborazione», ha fatto sapere la Banca d’Italia praticamente in contemporanea alla diffusione di un comunicato di uguale tenore da parte del ministero di via XX Settembre. Sugli altri interventi però, da Beppe Grillo a Giulio Tremonti dalla Lega all’Idv, che hanno espresso dubbi sull’efficacia dell’azione della Vigilanza, a Palazzo Koch si fa osservare che si tratta di cose da campagna elettorale.
Da Davos, ieri, è comunque arrivata una significativa manifestazione di fiducia a Mario Draghi, attuale presidente della Bce ed ex governatore della Banca d’Italia, da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel: «Se tutte le banche centrali del mondo si fossero comportate come la Bce, avremmo meno problemi nel mondo», ha detto. In ogni caso in serata, manifestando sconcerto per la strumentalizzazione in atto, il consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi ha definito la situazione della banca «completamente sotto controllo».
L’invito del governatore Ignazio Visco in questo scenario è guardare ai fatti. Che dicono, innanzitutto come le vicende del Monte dei Paschi siano sotto osservazione da più di quattro anni (ancora oggi a Rocca Salimbeni è in corso un’ispezione). Controlli «asfissianti», disse a suo tempo l’ormai ex presidente dell’Abi, ed in precedenza di Mps, Giuseppe Mussari. Ma torniamo appunto ai fatti. Partendo dal primo, l’acquisto di Antonveneta, l’origine dei mali della banca. Ebbene l’autorizzazione fu data dalla Banca d’Italia rapidamente perché, si fece allora sapere, erano rispettati tutti i requisiti richiesti dalla legge, che era quella nuova sul risparmio in cui, come reazione alla bufera creata dalla decisioni dell’ex governatore Antonio Fazio, era stata abolita ogni forma di discrezionalità per Via Nazionale. All’epoca — e bisogna ricordare che non era ancora scoppiata la tempesta dei mercati seguita al crollo della Lehman — l’operazione fu giudicata sostenibile, anche da dal punto di vista industriale, sia pure con l’esortazione a rafforzare il patrimonio. Sarebbe stato del resto estremamente difficile bloccare un’operazione già annunciata al mercato con i conseguenti danni reputazionali e finanziari, e relativo rischio di impugnativa. E il prezzo troppo alto? Rientra nella piena autonomia imprenditoriale delle banche valutare la convenienza economica delle operazioni, fanno capire in Via Nazionale. Compito della Vigilanza è infatti verificare che il prezzo pagato sia sostenibile dal punto di vista patrimoniale (non c’era Basilea 3) e reddituale e che la banca risultante dalla fusione sia in grado di funzionare dal punto di vista tecnico e organizzativo. Del resto, fanno notare a Palazzo Koch, in nessun paese avanzato la Vigilanza interferisce con le valutazioni di mercato.
La Banca d’Italia, comunque, accese il faro sul Monte dei Paschi, anche perché nel frattempo si erano creati problemi di liquidità. La lista dei controlli e delle ispezioni è molto lunga (Bankitalia la sta mettendo a punto): c’è stata in sostanza un’indagine a tappeto che, certo evidenziò i contratti derivati in bilancio, ma non, come è stato detto nella nota di mercoledì, l’inversione di rischio contenuta nel documento nascosto alle autorità e ritrovato più recentemente dai nuovi amministratori, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. I quali hanno denunciato la cosa alla stessa Vigilanza e, nello stesso tempo, alla magistratura preoccupati per possibili frodi mentre per la Banca d’Italia si prefigurerebbe il reato di ostacolo all’attività. Lo stesso ipotizzato nel primo filone di indagine sulle modalità di finanziamento e di rafforzamento patrimoniale per coprire il pagamento di Antonveneta, a seguito, anche in questo caso, di comunicazioni «non veritiere».
Stefania Tamburello

FEDERICO DE ROSA
IL RITORNO DELL’IPOTESI BNL E I PARACADUTE ANTICRISI - Era naturale che accadesse. I chiarimenti su swap, collar e cdo, possono fare poco. Ieri mattina i clienti, tanti, si sono presentati agli sportelli del Montepaschi solo per un motivo: capire se i loro soldi sono al sicuro. Molti non si sono fidati e li hanno ritirati. A Siena tutti si chiedono se Rocca Salimbeni ce la farà. Seppur timidamente comincia a circolare la parola «commissariamento», anche se l’ipotesi sembra di difficile applicazione. Finora nessuna banca è uscita in bonis dall’amministrazione straordinaria. Per il Montepaschi sarebbe quindi la fine. In un secondo i conti verrebbero svuotati accelerando l’epilogo. La scoperta di Alexandria e Santorini e delle perdite non contabilizzate correttamente, tra l’altro, potrebbero addirittura richiedere un intervento più radicale: la liquidazione coatta amministrativa, prevista nei casi di irregolarità o perdite eccezionalmente gravi. Non è mai successo per una banca delle dimensioni del Montepaschi. E probabilmente non succederà nemmeno adesso. Alessandro Profumo e Fabrizio Viola sono di fatto già dei commissari. E il loro lavoro lo stanno facendo. Una soluzione andrà comunque trovata. Saranno i 3,9 miliardi di Monti Bond? E’ l’auspicio di Profumo e Viola, che però ora si trovano a fare i conti con una strana aria che ha iniziato a tirare a Roma attorno all’aiuto pubblico, solo per un caso di importo uguale alla prima rata dell’Imu. In questo contesto non va trascurata la Borsa. E’ vero che da lunedì il titolo del Montepaschi è in picchiata: ha perso oltre il 20% del valore con il 18% del capitale scaricato sul listino. Ma quel 18% da qualche parte deve essere finito. Le voci nelle sale operative si sovrappongono. C’è chi guarda a Intesa Sanpaolo e Unicredit, immaginando l’operazione «di sistema» per blindare il Monte. Ieri circolava anche la voce di un interesse di Bnp Paribas, che in Italia già controlla Bnl. La stessa Bnl che nel 2005 con Siena aveva studiato una fusione, a cui la Fondazione Montepaschi all’ultimo disse no (dopo aver sentito Bankitalia), e che, a sentire le voci di Borsa, ora potrebbe tornare sul cavallo bianco.
Federico De Rosa

MILENA GABANELLI – PAOLO MONDANI
ECCO I DOCUMENTI DELL’ISPEZIONE 2010 - Ieri Banca d’Italia ha dichiarato in una nota che quelli di Monte Paschi gliel’hanno fatta sotto al naso. «La vera natura di alcune operazioni del Monte dei Paschi di Siena è emersa solo di recente, a seguito del rinvenimento di documenti tenuti celati all’Autorità di Vigilanza e portati alla luce dalla nuova dirigenza MPS». In effetti l’Istituto di via Nazionale non è un organo di polizia e tantomeno giudiziario, e se la Banca che da tempo sta monitorando gli nasconde le carte, mica può mettersi ad intercettare i dirigenti! Ma davvero MPS ha nascosto le carte? Leggendo la relazione della Vigilanza di Bankitalia che nel 2010 fa visita al Monte si ricava tutt’altra impressione. L’ispezione dura 3 mesi (inizia l’11 maggio e si conclude il 6 agosto) ed è firmata da Vincenzo Cantarella, Biagio De Varti, Giordano Di Veglia, Angelo Rivieccio, Federico Pierobon, Omar Qaram. Dalle osservazioni generali sull’accertamento emergono risultanze parzialmente sfavorevoli, segue l’elenco dei punti di debolezza. Per quel che riguarda i profili organizzativi e di controllo gli ispettori scrivono: «La regolamentazione delle operazioni finanziarie deve essere estesa ai veicoli di diritto estero, al fine di evitare che possano essere assunte posizioni non monitorabili dalle strutture di controllo» (ovvero: siccome ci sono più centri decisionali in grado di assumere rischi ad esempio acquistando finanza strutturata, è opportuno che la capogruppo sia in grado di conoscere i rischi che tutti questi altri centri si assumono). La relazione prosegue: «L’azione dei comitati interni è incerta, poco incisivo l’operato del comitato rischi, le decisioni prese nei comitati finanza e di stress non vengono riportate con regolarità al Consiglio» (cioè: ognuno assume rischi come gli pare e il Consiglio non sa niente).
«La struttura commerciale si raccorda in modo insufficiente con quella che gestisce i rischi finanziari derivanti da prodotti che includono derivati. Poco efficace anche il coordinamento dei vari risk Taking Center, la cui sovrapposizione operativa è stata assecondata assegnando crescenti obiettivi di profitto all’area Tesoreria, Capital Management e Direzione Global Market» (in altre parole, i dirigenti di queste aree si sovrappongono pur di fare profitto senza monitorare i rischi). «L’orientamento del gruppo verso l’assunzione dei rischi escluso dal computo dei requisiti prudenziali non si è accompagnato al rafforzamento, anche in termini di risorse addette, dei relativi presidi di riscontro» (come dire che hai comprato il treno ma non hai assunto il macchinista e lo fai guidare ad uno che non ha la patente). A maggior riprova della mancanza di competenza nella capacità di gestire i rischi assunti, Bankitalia scrive: «Il Risk management non riscontra le valorizzazioni dei fondi hedge e di private equity, né le posizioni detenute da numerose controllate estere». Ed erano appunto le controllate estere a fare le famose operazioni Alexandria e Santorini, di cui oggi Bankitalia dice di non sapere nulla, nonostante sulla relazione ispettiva scriva: «Alcuni investimenti a lungo termine presentano profili di rischio non adeguatamente controllati né riferiti dall’esecutivo all’organo amministrativo. In particolare si sono determinati consistenti assorbimenti di liquidità (oltre 1,8 miliardi) riferiti a due operazioni, del complessivo importo nominale di 5 miliardi di euro, stipulate con Nomura e Deutsche Bank Londra». Stiamo appunto parlando dell’operazione Alexandria e Santorini... che sono state un bagno di sangue.
Quindi Bankitalia sapeva di queste operazioni, e sapeva che non erano adeguatamente monitorate. Perché non è successo niente? Inoltre tutte queste operazioni vanno scritte in un bilancio, e poiché il controllo della correttezza contabile spetta alla Consob, (ed è difficile immaginare che la nocività si sia manifestata negli ultimi tre mesi) se ne deduce che anche Consob non abbia garantito negli anni al mercato ed agli investitori la dovuta trasparenza sulla situazione contabile e finanziaria di Montepaschi. Se non vogliamo continuare a porci sempre le stesse domande retoriche su dove fossero Consob e Banca d’Italia qualcuno dovrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di mettere nel programma dei primi 100 giorni di governo il progetto di riforma delle Autorità.
Milena Gabanelli
Paolo Mondani

FABRIZIO MASSARO
ECCO CHI GUADAGNO’ CON LE CEDOLE D’ORO — L’inchiesta su Mps è un faldone che si gonfia sempre di più. Lo scorso maggio era deflagrata con le maxi-perquisizioni sull’affaire Antonveneta, cioè l’acquisizione da 9 miliardi in contanti dell’istituto padovano e sui modi con cui la banca senese si era finanziata, a cominciare dal misterioso — per certi versi — bond fresh del 2008. Di recente si è incrociata con un’altra indagine relativa ai derivati sottoscritti da Montepaschi, sviluppatasi contemporaneamente a Siena e a Milano e poi, poche settimane fa, riassunta tutta nel capoluogo toscano. E il punto di contatto è appunto quell’emissione obbligazionaria da 960 milioni, per metà finita in pancia alla stessa Fondazione Mps, per metà a investitori istituzionali, come si disse allora. Soggetti mai venuti allo scoperto, nonostante la vita travagliata di quel prodotto finanziario.
I 220 milioni di utili realizzati nel 2009 da Mps grazie ai derivati di Nomura con l’operazione «Alexandria» consentirono allora alla banca di remunerare la pesante cedola del 10% annuo ai sottoscrittori del bond fresh, per poco meno di 100 milioni complessivi. Non è ancora chiaro se «Alexandria» sia stata realizzata proprio per ottenere la provvista per quel dividendo, ma di certo senza quel maquillage contabile pagare sarebbe stato impossibile. Quell’anno Mps riuscì a distribuire un utile di appena 186 mila euro e solo alle azioni di risparmio, tutte peraltro in mano alla Fondazione Mps: 1 centesimo per azione. Ma lo stacco di quella cedola fece scattare la clausola che obbligava la banca a remunerare anche i bond «fresh». Ma perché Mps ricorse a quello strumento così sofisticato? Per finanziare la gigantesca acquisizione di Antonveneta, 9 miliardi in contanti versati nel novembre 2007 alla spagnola Santander — che a sua volta l’aveva rilevata solo pochi mesi prima per poco più di 6 miliardi dalle spoglie dell’olandese Abn Amro — il Monte dei Paschi dovette ricorrere a un aumento di capitale monstre: 5 miliardi, metà dei quali dalla Fondazione Mps, che per questo si svenò. Alla banca presieduta da Giuseppe Mussari e guidata dal direttore generale Antonio Vigni ne servivano però almeno 6, di miliardi. Dove trovare quei soldi in più? Anche per agevolare la fondazione presieduta da Gabriello Mancini che non voleva diluirsi sotto il 50% del capitale, venne elaborato con Jp Morgan il «fresh», un prestito che però veniva computato nel patrimonio come se fosse capitale a tutti gli effetti.
La vita di quel prestito però non fu facile. Ed è proprio sugli eventi successivi all’emissione del «fresh» nella primavera del 2008 che inizialmente hanno acceso il faro la Banca d’Italia e i pm di Siena Antonino Nastasi, Giuseppe Grosso, Aldo Natalini e il procuratore Tito Salerno con il nucleo valutario della Guardia di Finanza, nell’ambito della più generale inchiesta su Antonveneta. Pochi mesi dopo, nell’autunno del 2008, la Banca d’Italia chiede a Rocca Salimbeni di modificare in maniera più stringente il regolamento di quel bond in modo da trasferire pienamente il cosiddetto «rischio d’impresa» sui sottoscrittori. Ma nel 2009 le cose si complicarono ancora di più.
Alcuni sottoscrittori, come l’hedge fund svizzero Jabre Capital Partners, contestarono a Mps le regole più stringenti introdotte nel bond accusando la banca di avere cambiato le carte in tavola dopo che essi avevano sottoscritto e dunque versato i soldi. Anche dentro la banca vi fu un’accesa discussione sui nuovi termini dell’emissione.
Addirittura ad almeno uno di questi sottoscrittori la banca concesse una sorta di garanzia supplementare, una indemnity, che lo tutelava maggiormente nell’investimento. Ma chi aveva concesso quel privilegio? Il consiglio ne era stato informato? E chi lo ottenne? Per il momento si sa da dove arrivarono gli utili per pagare la cedola: da Alexandria.
Fabrizio Massaro

MARCO IMARISIO
DALL’UNIVERSITA’ AL PALIO, FINO AL BASKET. LA ROCCA CEDE E LA CITTA’ TRABALLA — «Avvoltoi». La signora agita in aria la tazzina del caffè come fosse una spada. L’epiteto è rivolto a un gruppo di giornalisti che al banco del caffè Nannini dipingono scenari sul futuro del Monte dei Paschi e su quello della città, che poi è la stessa cosa. «Non potete farlo, voi non siete di qui». I forestieri sono sempre individuati come nemici, ma almeno i criteri che definiscono l’identità locale hanno l’indubbio pregio di una rigida semplicità. Tutto ciò che non è Siena, semplicemente non è Siena, oltre alla Storia lo dice anche un proverbio.
Bisogna partire da questa innata tendenza all’autarchia, da un riflesso pavloviano che si perpetua nei secoli, per capire le paure e i cedimenti di una delle città più belle d’Italia, che negli ultimi anni ha scordato di essere un borgo da cinquantamila abitanti appena. La memoria non c’entra nulla. Siena ha solo ripetuto quel che fa da sempre. Seguire, anzi farsi portare dalla banca, causa unica e primaria della sua vocazione solitaria.
C’è una logica, quella di sempre. Perché aprirsi all’esterno quando Babbo Monte vede e provvede, quando la sua Fondazione irrora con milioni di Euro la città e i suoi meravigliosi dintorni? «Non esiste collezione, biblioteca, ricovero o collegio che nei secoli non sia stato foraggiato dal Monte». L’ex sindaco intellettuale Roberto Barzanti passa le sue giornate negli archivi, ma ha il dono della sintesi. «Il nostro destino comune non si spiega con la cronaca, ma con la storia».
La teca di cristallo che proteggeva Siena si è rotta. Le crepe erano visibili da anni, ma in tanti hanno fatto finta di niente. Quando il più forte si ammala, il contagio si diffonde in fretta, mancano anticorpi che nessuno ha mai neppure provato ad immaginare. Dal 1996 al 2010, ultimo anno felice, la Fondazione del Monte dei Paschi ha erogato finanziamenti diretti e indiretti per 5,9 miliardi di Euro, pari al sette per cento del Pil provinciale annuo, percentuale che raddoppia se si resta nella cinta daziaria della città.
La «marcata connotazione territoriale» che i manuali economici attribuiscono al Monte è un gentile eufemismo, che diventa trappola quando finisce il tempo dell’abbondanza. Ogni cosa sta sfiorendo, dicono i pensionati che girano intorno a Rocca Salimbeni, fortezza economica che da cinque secoli domina e incombe sulla città. Nessun simbolo è immune. L’omonima squadra di basket, orgoglio sportivo cittadino in quanto indigena in ogni posizione societaria, ha ridotto del cinquanta per cento budget e ambizioni, naviga a mezza classifica nel campionato nazionale dopo averlo dominato per sei stagioni consecutive. Il Siena calcio è malinconicamente ultimo, vicino sia alla retrocessione che a un futuro gramo: Mps non rinnoverà la sponsorizzazione da 8,5 milioni.
L’inverno di Babbo Monte non risparmia neppure il Palio, la creatura più amata. Ogni contrada dovrà rinunciare all’obolo annuale. Erano solo 225 mila Euro in tutto, ma di tutti i tagli questo è il più simbolico perché riguarda un bene protetto e inalienabile che con la sua esistenza definisce l’identità cittadina. «Ma certo, siamo in un cono d’ombra» dice Emilio Giannelli, avvocato ex direttore generale della Fondazione che i lettori del Corriere conoscono da anni per le sue quotidiane vignette in prima pagina. «Se vogliamo usare lo sport come metafora, questo declassamento è il risultato di anni trascorsi vivendo al di sopra delle proprie possibilità».
Ma i segni del declino sono ovunque, dice un malinconico Giannelli. Nelle librerie che chiudono a raffica, sette nel 2012, in una stasi culturale ormai prolungata e in turismo che ormai si è consegnato al mordi e fuggi, alla visita guidata di poche ore con i torpedoni in sosta oraria. Il contagio non ha risparmiato l’università, unica vera istituzione cittadina alternativa. L’inchiesta giudiziaria seguita alla scoperta di un buco da 200 milioni nelle casse dell’ateneo ha rivelato usi e costumi dolorosi, da magliari più che da accademici. L’azzeramento dei contributo della Fondazione, che fino al 2008 ammontavano a dieci milioni, non è certo la causa principale di una gestione dissennata.
I soldi c’erano, ma venivano spesi anche per l’acquisto di 360 chili di aragoste e polipi, che la Procura ha definito «materiale non pertinente» facendo sfoggio di una certa vena ironica. Angelo Riccaboni, il rettore chiamato a riparare il danno di portafoglio e d’immagine, è obbligato all’ottimismo. «La mia è una eredità pesante, come quella che questa nuova bufera lascerà sulla città. Ma forse ne può nascere del bene. Forse è davvero finito il tempo della nostra boriosa autosufficienza. Adesso siamo davvero obbligati ad aprirci all’esterno».
Il coraggio della sincerità viene più facile da una certa distanza. «A Siena non c’è mai stata distinzione tra finanza e politica. Il vero torto di Mussari e degli attuali amministratori cittadini è di aver costruito un sistema di potere che non funziona». Pierluigi Piccini sa di cosa parla. Anche lui è stato sindaco, prima di concludere la sua carriera lavorativa in Francia, da vicedirettore di Mps Banque. Dal 1983 al maggio 2011 tutti i primi cittadini senesi vengono dal sindacato del Monte dei Paschi, e terminato il loro mandato sono rientrati in azienda.
Quasi vent’anni, nel segno di una rivendicata autarchia. Il mondo andava verso la globalizzazione spinta, mentre Siena restava immobile. Adesso è cominciata la corsa a precisare, prendere le distanze, ostentare ignoranza su quel che tutti sapevano. Ha ragione la signora del bar Nannini. Sulla città e sul suo inverno volteggiano gli avvoltoi. Non necessariamente giornalisti.
Marco Imarisio

NICOLA SALDUTTI
SUL DISASTRO DI MONTEPASCHI C’E’ QUALCUNO CHE SI E’ ARRICCHITO - Il punto è che anche nei disastri finanziari c’è sempre qualcuno più veloce degli altri. Molto più veloce. E che può addirittura riuscire a guadagnarci. Più passano i giorni più la vicenda del Monte dei Paschi assomiglia a un groviglio di errori, previsioni sbagliate, fragilità. Ma, nonostante questo c’è un aspetto che colpisce: la banca di Siena a un certo punto (nel 2008), per sostenere l’acquisto dell’Antonveneta ha emesso uno strumento finanziario dal nome un po’ esotico, il cosiddetto fresh. Circa un miliardo di euro che servivano a rafforzare il patrimonio dell’istituto. Una mossa obbligata dalle nuove regole sulla solidità patrimoniale degli istituti. Regole diventate sempre più stringenti per tutti. E che a Siena sono state particolarmente difficili da rispettare.
Eppure c’è qualcosa che sorprende: chi aveva sottoscritto questi titoli aveva diritto a un interesse molto elevato, pari al 10%. Come dire che per ripagare questo debito, ogni anno, la banca doveva trovare nei suoi bilanci qualcosa come 100 milioni di euro. Che in gran parte andavano alla Fondazione-azionista, ma anche ad altri investitori. Un tasso d’interesse molto elevato legato al fatto che quando il mercato intuisce che ci sono delle difficoltà ne approfitta a suo modo: guadagnando il più possibile sulle controparti considerate più deboli. Per avere un’idea basti pensare che lo Stato italiano, nei momenti complicati della crisi del debito, ha remunerato i sottoscrittori dei suoi Btp al 7%. Ben tre punti percentuali in meno. Non solo. La macchina delle acrobazie finanziarie, una volta avviata, appare difficile da fermare. E così i conti dell’istituto dovevano essere orientati in modo da assicurare almeno un centesimo di dividendo ai sottoscrittori delle azioni di risparmio. Come dire: c’era qualcuno che, nonostante la situazione complicata, doveva incassare un dividendo ad ogni costo. La Procura di Siena sta indagando, la Banca d’Italia che da tempo teneva sotto controllo la banca, sta facendo le sue valutazioni. Ma una cosa è certa: qualcuno ha, in qualche modo, detto con un termine forse un po’ brutale, spolpato il Monte. E in qualche modo si è arricchito mentre la banca perdeva.
Nicola Saldutti