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 2013  gennaio 25 Venerdì calendario

LEGGERE IL PENSIERO COSIì GLI SCIENZIATI VEDONO COSA ABBIAMO IN TESTA

«Non provo dolore» Questa frase, nella forma di una macchia di colore, è apparsa a metà novembre 2012 sul monitor di Adrian Owen, neuroscienziato del Brain and Mind Institute della University of Western Ontario (Canada). Quella macchia di colore corrisponderà all’attività cerebrale di un uomo, Scott Routiey, che da dodici anni non può parlare, in seguito a un incidente automobilistico che lo ha lasciato in uno stato di coma classificato come «stato di minima coscienza».
Per stabilire un contatto con Routley, Adrian Owen è entrato nel suo cervello. O, più precisamente, ha provato a leggere i suoi pensieri. Per farlo non ha usato la telepatia, ma la risonanza magnetica funzionale (o fMRI), che misura il livello di ossigenazione del sangue nelle varie aree cerebrali, evidenziandole sul monitor con colori diversi. Là dove c’è più ossigeno è maggiore l’attività dei neuroni (e quindi si troverebbe un «pensiero»).
Owen definito per i suoi studi «il lettore della mente» dalla rivista scientifica Nature, che qualche mese fa gli ha dedicato uno speciale per dialogare con l’uomo in coma, gli ha posto questa domanda: «Provi dolore? Se sì, immagina di camminare verso casa. In caso contrario, pensa di giocare a tennis». La prima opzione avrebbe provocato un afflusso di ossigeno nelle aree cerebrali preposte all’orientamento. La seconda avrebbe invece aumentato l’attività nella corteccia motoria. In Scott è aumentata quest’ultima attività, ovvero sembra che abbia risposto: «Nessun dolore».
«Usare questo sistema è possibile perché ora sappiamo che, quando immaginiamo di compiere una certa azione, l’attività cerebrale è simile a quella che si ha quando quell’azione viene compiuta davvero» dice Sarah Richmond, docente di filosofia allo University College of London e autrice insieme al neuroscienziato Geraint Rees di I Know What You’re Thinking: Brain Imaging and Mental Privacy, uscito meno di un mese fa (Oxford University Press, pp. 280, euro 55,90). Ma la lettura del pensiero è indagata in chiave scientifica almeno da quando Louis Pauweis e Jacques Bergier, nel loro bestseller degli anni Sessanta, Il mattino dei maghi, raccontarono degli esperimenti di telepatia che la marina statunitense aveva condotto nel 1958 per cercare un sistema di comunicare coi sommergibili. Bisogna però chiarire subito una cosa: non leggiamo la mente allo stesso modo in cui si legge un libro.
«È più una decodifica che una lettura» spiega John Dylan Haynes, del Bernslein Center for Computational Neuroscience di Berlino, che insieme a Owen è uno dei maggiori esperti sull’argomento. «Mettiamo una persona in uno scanner e gli chiediamo di pensare a qualcosa di specifico, per esempio a un gatto. Poi registriamo via fMRI gli schemi della sua attività cerebrale, e così associamo una ben precisa "istantanea" del suo cervello al concetto di "gatto". Ripetiamo quest’operazione per molti oggetti. Dopo questa fase il soggetto è libero di pensare ciò che desidera, e noi siamo in grado di riconoscere quando si forma il pensiero di un gatto o di uno degli altri oggetti su cui il sistema si è, per cosi dire, allenato».
Certo, una lettura della mente veramente efficace e anche inquietante, per l’uso che se ne potrebbe fare dovrebbe essere in grado di leggere molti stati mentali, non solo quelli su cui è stata allenata. «Entro certi limiti riusciamo già a farlo, anche se solo per immagini non molto complesse o concetti poco articolati» assicura Haynes: «Tom Mitchell, docente di informatica alla Carnegie Mellon University ha mostrato che basta fornire a un software gli schemi cerebrali corrispondenti a poche decine di oggetti per essere in grado di riconoscere quando un soggetto sottoposto a fMRI sta pensando a un oggetto o a un concetto in qualche relazione con quelli già noti. Però è chiaro che riusciamo a leggere pensieri "nuovi" solo quando hanno una relazione con altri già conosciuti. Per esempio, se conosco gli schemi di attivazione cerebrale corrispondenti ai concetti di "auto" e "bicicletta", e vedo che il soggetto di cui voglio leggere il pensiero in un certo momento ha uno schema cerebrale che sembra un ibrido tra i due, posso stimare che l’individuo stia pensando a una moto».
Con un sistema simile, a partire dagli schemi cerebrali corrispondenti a molte variazioni di qualità di base di un’immagine come la forma e il colore, Shinji Nishimoto e Jack Gallant, dell’Università della California, sono riusciti nel 2011 a ricostruire su un monitor in tempo reale anche se in maniera approssimativa le immagini che un soggetto sotto fMRI stava vedendo: era come se le avessero estratte direttamente dalla corteccia visiva.
Un ulteriore passo avanti verso la telepatia hi-tech è stato quello fatto da un neuroscienziato dell’Università di Princeton, Matthew Botvinick, che si è chiesto se agli oggetti che hanno qualcosa in comune, come «sedia» e «tavolo», corrispondano schemi cerebrali con qualche caratteristica simile. Dai risultati ottenuti nel 2012 dai neuroscienziati di Princeton sembra essere proprio così: quando pensiamo alla categoria «mobili», l’attività neuronale corrispondente riguarda aree che sono in comune tra i diversi schemi cerebrali per i singoli oggetti «sedia», «tavolo», «letto» e così via. In sostanza, ciò significa che possiamo conoscere non solo i pensieri di cui abbiamo l’impronta cerebrale, ma anche di fronte a un pensiero del tutto nuovo e sconosciuto stimare con quali pensieri già catalogati questo abbia qualche affinità. E questo potrebbe rendere più facile, un domani, bloccare, al check-in dell’aeroporto, un individuo che ha in mente parole come «bomba», «esplosione» o parole in qualche modo correlate.
Una frontiera ancora più avanzata è quella esplorata in Olanda da Joao Correla, dell’Università di Maastricht. In uno studio di prossima pubblicazione, il neuroscienziato ha indagato sulla possibilità di riconoscere i pensieri indipendentemente dalla lingua in cui sono espressi. Dopo aver chiesto a soggetti bilingui di pronunciare parole come «toro», «cavallo», «squalo» nelle due lingue da loro parlate, Correla ha confrontato gli schemi cerebrali registrati via fMRI. Trovando molte parti in comune quando venivano pronunciate due parole dallo stesso significato: i concetti sarebbero quindi codificati, nel cervello, in un modo che appare indipendente dal linguaggio. La neuroscienza sembra dare ragione a Shakespeare: nella nostra mente una rosa è sempre una rosa, qualunque sia il nome che le diamo.