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 2013  gennaio 24 Giovedì calendario

“SONO IL REGISTA CHE HO SEMPRE SOGNATO”

Los Angeles
A sentirlo parlare al telefono con la moglie ti vengono i brividi. Ha una voce talmente calda e piena da ricordarti la panna montata. La stessa voce che aveva 45 anni fa all’esordio ne Il Laureato, nei panni dello sbarbatello Benjamin avviato ai misteri dell’amore e del piacere dalla matura, ma fascinosa Anne Bancroft. Dustin è un attore straordinariamente convincente, ma il segreto della sua magia è nella voce e nelle scelte che ha fatto. Nella sua filmografia abbondano i classici e pochissimi sono i fiaschi.
Oggi, a 75 anni, lo interessa più la regia che la recitazione e come attore predilige le commedie. Da regista ha debuttato con Quartet. Come mai ci ha messo così tanto tempo a esordire dietro la macchina da presa? “È uno dei miei demoni”, risponde. “O almeno lo era”. E ricorda che verso la metà degli anni 70 aveva comprato i diritti del romanzo Come una bestia feroce di Edward Bunker. Aveva trovato i soldi, scritturato gli attori, scritto la sceneggiatura e cominciato a girare. “Un disastro già dal primo ciak. Così dopo qualche tentativo decisi di licenziarmi”.
MI AVEVANO detto che aveva piantato tutto perché non sapeva contro chi urlare? “Bella storia, peccato che non sia vera. Così come non è vero che urlo con i registi e con i produttori. Per dirla tutta, detesto quei vigliacchi di registi che alzano la voce con chi non può rispondere per le rime: comparse e generici”. Il film, con il titolo di Vigilato speciale, fu diretto da Ulu Grosbard e uscì nelle sale nel 1978. A Hoffman non fu più chiesto di dirigere un film. “Avevo la sensazione che non avrei mai più avuto un’altra occasione. Mi sentivo come uno cui non è permesso fare il regista. Ma, come ho detto, la regia era uno dei miei demoni”.
LA LISTA delle “occasioni perdute” di Hoffman è lunga “Rifiutare ruoli interessanti è un altro dei miei demoni. Vuole che le faccia l’elenco? L’adultera di Ingmar Bergman. Rifiutai perché la mia prima moglie era incinta. Poi Incontri ravvicinati del terzo tipo e anche Schindler’s List. Ho rifiutato anche una proposta di Fellini”. E perché diamine ha detto no a Fellini? “Me lo sono chiesto per anni. Il fatto è che Fellini non girava in presa diretta e usava il doppiaggio e pensavo che questo modo di girare avrebbe avuto effetti negativi sulla mia recitazione. Amavo Fellini e gli ho detto no. Per tutta la vita ho cercato qualche buona – o cattiva ragione – per dire no”.
Solo pigrizia? “No, non era un pretesto per non lavorare. Il fatto è che ho sempre avuto problemi ad accettare il successo. Il successo de Il Laureato sulle prime lo considerai un semplice incidente di percorso”. Hoffman è nato a Los Angeles da genitori ebrei. La madre Lillian faceva l’attrice e la pianista jazz a tempo perso e suo padre, Harry, faceva l’attrezzista in uno studio cinematografico. Ma fu licenziato , provò a fare l’imprenditore e finì per vendere mobili. “A cena mangiavano spesso corn flakes”, ricorda Hoffman. A scuola andava piuttosto male e alla licenza non prese un punteggio sufficiente per iscriversi all’università. Così ripiegò sulla recitazione, su consiglio di un amico. “Mi piacque subito. Era la prima volta che facevo qualcosa che non mi procurava sofferenza”.
Certo non era attraente e da giovane aveva la faccia piena di acne e l’apparecchio ai denti. “Mio Dio, la gente ti fa capire che aspetto hai. Quando dissi che volevo fare l’attore, mia zia Pearl sentenziò che non ero abbastanza bello. Insomma ero il giovincello ebreo dall’aspetto buffo che poteva fare da spalla al classico bello alla Robert Redford”. Voleva somigliare a Redford? “No, a James Dean. Al secondo anno di recitazione mi convinsi che somigliavo a Dean”.
HOFFMAN divide i registi in due categorie. “Quelli che vogliono essere sorpresi e quelli che non vogliono essere sorpresi. Quelli che non vogliono essere sorpresi li riconosci per il fatto che mentre giri loro bisbigliano le battute. È un guaio, vuol dire che il film l’hanno già girato in testa e non gradiscono nemmeno una diversa intonazione nella voce”.
Parliamo di Quartet, il film da lei diretto nel quale non recita e che le ha permesso di fare finalmente i conti con il suo demone. Il film è un inno alla vecchiaia e allo spirito dell’uomo. Il regista Hoffman tira fuori il meglio dal cast completamente inglese. Strano che uno con la sua reputazione abbia scritturato la temutissima Maggie Smith. Le faceva paura? “Mi avevano avvertito che ti può distruggere se le dici delle fesserie. Quando ci siamo incontrati ci siamo seduti su un divano e le ho detto ‘abbiamo entrambi la fama di essere le bestie nere dei registi’. ‘Di alcuni’, mi ha risposto. E io ho replicato ‘hai ragione’. Lei è semplicemente fantastica”.
In un certo senso ha trovato più facile fare il regista che l’attore? “È stato un sollievo fare quello che la maggior parte dei registi non fa: lasciare spazio all’attore e fargli rivedere il girato perché sia lui stesso a giudicare se la scena funziona. In genere i registi non ti fanno nemmeno avvicinare al monitor perché vogliono tenere l’attore in una posizione di soggezione”.
Ci lasciamo con Hoffman che mi parla della sua seconda moglie, Lisa, sposata 32 anni fa, dei suoi sei figli grandi, dei nipoti e del fatto che è in analisi da dieci anni. “Sa una cosa? Voglio continuare a fare l’analisi anche dopo la mia morte”.