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 2013  gennaio 24 Giovedì calendario

UPDIKE, IL CONIGLIO HA FATTO BLURB


Pochissimi giorni fa, partecipando alla presentazione di un documentario sulla sua carriera, Philip Roth ha attaccato «quei provinciali» della giuria del Nobel, che non hanno mai dato il premio allo scrittore fenomenale del Teatro di Sabbath e di Pastorale americana . Sono in buona compagnia, ha detto Roth, e per consolarsi ha citato solo altri quattro grandi esclusi. «Ho corso con cavalli molto veloci», ha detto, e ha fatto questo elenco di nomi: William Styron, E.L. Doctorow, John Updike e Joyce Carol Oates. «Ma il comitato del Nobel non è d’accordo con me. Ci giudicano provinciali. Provinciali saranno loro».

Updike, suo collega di Pulitzer, non ha più tempo per prenderlo in vita, il Nobel, ma sicuramente quest’elenco di Roth descriverebbe abbastanza bene le predilezioni di Updike lettore, gli scrittori che ha amato, citato, elogiato, e quelli su cui ha fatto scendere un silenzio che può essere legittimamente interpretato come un giudizio, perlomeno una mancanza di interesse, se non una stroncatura. Esce in America un libro che aiuta in questo gioco, con quel tanto di arbitrarietà che tutti i giochi hanno: The Collected Blurbs of John Updike , giudizi e fascette scritte dal grande autore di Corri, coniglio ma anche grande recensore del New Yorker . E il libro - di cui ha scritto The American Reader - diventa una specie di passaggio attraverso cui guardare l’America letteraria, contemporanea ma non solo, e il resto del mondo. È un po’ come se si entrasse nell’officina di un grande consulente editoriale, un Calvino, per dire. E infatti Calvino è l’unico autore italiano di cui Updike si occupa, in particolare scrivendo, a proposito di Se una notte d’inverno un viaggiatore , che «Calvino seduce e intrattiene il lettore tra le maglie di uno schema puntato a frustrare ogni ragionevole aspettativa».

Intendiamoci: nei «Blurbs» non possono apparire stroncature, ma elogi, o come minimo pure descrizioni del lavoro di un autore. Ma è chiaro che Updike si occupa di ciò che gli piace o almeno gli interessa. Dunque, conviene enunciare a naso qualche escluso, così, per capirci: Updike non parla della generazione dei Foster Wallace, dei Franzen, degli Eugenides. Glissa su mostri sacri come Don De Lillo e Thomas Pynchon, in definitiva la narrativa spezzata del postmoderno non sembra interessarlo poi più di tanto. C’è invece un filo di augusta classicità che tiene insieme le sue scelte - americane, sudamericane o anche europee.

Per dire, vi si ritrovano Vargas Llosa e García Márquez. Con evoluzioni significative. Del primo si dice inizialmente «il più grande scrittore peruviano - e uno dei migliori al mondo» (per Il caporale Lituma sulle Ande ); ma poi addirittura «con Storia di Mayta Vargas Llosa ha rimpiazzato García Márquez come narratore sudamericano con cui gli americani devono fare i conti».

Un capitolo a sé meritano i nordamericani, contemporanei o no dello stesso Updike. Il quale ha amato tantissimo - e si vede, è una sua palese fonte di ispirazione anche dal punto di vista tecnico, nella scrittura - uno come John Cheever: dei suoi Racconti osserva che «molte persone hanno scritto dei sobborghi, ma solo Cheever è stato capace di farne un archetipo». Lo entusiasma, dal punto di vista della prosa, E. L. Doctorow, nella Marcia è «splendido... ci guida attraverso una moltitudine di momenti di meraviglia e pietà, terrore e commedia... con una compassione elegiaca e una prosa di un’economia e una rapidità scintillante». Di Norman Mailer sostiene che è «penetrante, fresco, fervido... Il suo gospel è scritto in un inglese fresco, rilassato, eppure ha una inquietante dignità biblica». L’apprezzamento per il suo amico Roth è probabilmente il più alto; parlando della Controvita , Updike spiega che «nessun altro scrittore combina una superficie di tale rilassatezza colloquiale col disvelamento di un carico così denso di intelligenza mediatrice... Roth non ha mai scritto più scrupolosamente o, per dirla in breve, con più amore». Giudizio che forse solo per l’Hemingway del Giardino dell’Eden è altrettanto secco e entusiastico: «Un miracolo, pura, fresca inclinazione verso l’antica magia».

Updike ha una passione per certa letteratura femminile, di Margaret Atwood e del suo L’assassino cieco scrive che è «opulento... brillante... La Atwood è una poetessa e allo stesso tempo un’inventrice di fiction, e raramente una frase della sua prosa, veloce, asciutta eppure avida, fallisce nel suo scopo». Di Anne Tyler, Una donna diversa , assicura che «non è solamente buona, è estremamente buona». Ama Muriel Sparks. Ma non si lascia sfuggire i classici contemporanei.

Il Borges di Sette notti fa dire a Updike che «ascoltando i suoi discorsi rilassati ma così espliciti, realizzi che non ci sarà mai più una mente e una memoria così saldamente fissate». Non gli sfugge il genio di Thomas Bernhard. Su Nabokov è illuminante, e in parte sta quasi parlando di sé, del suo modo di concepire la scrittura: se l’autore di Lolita «scrive prosa nell’unico modo in cui bisognerebbe scrivere, estaticamente», è anche quello che tentò di fare l’autore di Coniglio, riposa , il libro che valse il Pulitzer a Updike.

Non c’è puzza sotto al naso, in questo divoratore di libri. Di Paura di volare (di Erica Jong) scrive che è «senza paura e fresco», di Graham Greene che «il suo capolavoro è Il potere e la gloria », si occupa di Arundhati Roy ( Il dio delle piccole cose - «un libro di vera ambizione deve inventare un suo linguaggio, e questo ci riesce»), non si sottrae a un elogio di Mordecai Richler e della Versione di Barney , libro privo in America del risvolto modaiolo italiano. Cita e ama Alvaro Mutis (le avventure di Maqroll il gabbiere ), cita Mo Yan, o Pamuk («Con Neve è il probabile candidato turco al Nobel»).

L’elenco potrebbe continuare, come le assenze illustri di cui dicevamo. In definitiva, due aggettivi ricorrono per descrivere la scrittura che Updike ha amato: una strana combinazione di «relaxed» e «flamboyant».