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 2013  gennaio 24 Giovedì calendario

TUTTI SCONFITTI NELLA GUERRA DELLE VALUTE


Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha deciso di spostare per un giorno la campagna elettorale italiana sulle nevi svizzere. Dal punto di vista della finanza internazionale, l’Italia è l’unico Paese, tra quelli a rischio, che (forse) «ce l’ha fatta», anche se a prezzo di sacrifici per l’economia reale maggiori del previsto e per questo è stato invitato a tenere, nel centro turistico svizzero di Davos, il discorso di apertura del World Economic Forum, una sorta di «salotto buono» della globalizzazione, luogo d’incontro di politici e banchieri, industriali e finanzieri di primo livello talvolta descritto come l’internazionale dei ricchi.

Pur essendo un «salotto buono», quest’anno il World Economic Forum non è certo un salotto allegro. La cancelliera Angela Merkel è giunta a Davos sotto il peso di una sconfitta elettorale in un’importante elezione regionale, a otto mesi dalle elezioni politiche. I rappresentanti degli Stati Uniti vi sono arrivati sotto il peso di un collasso fiscale solo rinviato dal recente accordo al Congresso.

Il ministro francese dell’economia, Pierre Moscovici ha portato con sé a Davos l’assillo di un deficit pubblico che cresce troppo; il primo ministro britannico Cameron quello di un’economia che cresce troppo poco e, anche per questo, vuol lanciare un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea.

La scontentezza non riguarda solo i leader: in un sondaggio effettuato ieri dalla Cnn tra i visitatori del suo sito economico, in quasi tutti i Paesi avanzati il 65-70 per cento delle risposte concorda sul fatto che viviamo in tempi duri. Fanno eccezione la Germania, verso il basso (solo il 43 per cento) e l’Italia verso l’alto (79 per cento). Come se questo malcontento non bastasse, il mondo ricco si trova stretto tra due tenaglie, una politico-strategica e una monetaria.

Dal punto di vista politico-strategico, l’assalto islamista a Is Amenas, nel deserto algerino fa scendere un brivido lungo la schiena: data per defunta o irrilevante, Al Qaeda si è in realtà rivelata capace di un grave attacco di sorpresa nel settore energetico nel quale la vulnerabilità delle economie avanzate è estrema. Nell’Africa occidentale non solo i deserti ma anche ampie aree di Paesi come la Nigeria sono ormai sostanzialmente in mano agli islamisti. Contemporaneamente, il rumore delle armi rischia di rovinare la festa economica dell’Asia: tra due Paesi tradizionalmente prudenti, come Cina e Giappone, per il possesso delle disabitate isole Senkaku e tra India e Pakistan, entrambi potenze nucleari. Infine, subito dopo la sua risicata vittoria elettorale il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha usato toni durissimi contro l’Iran, quasi una dichiarazione di guerra.

Se le guerre reali sono, per fortuna, solo possibilità abbastanza remote, i partecipanti all’incontro di Davos si trovano davanti la realtà di nuove guerre finanziarie. Nel giro degli ultimi due anni, la fiducia in una grande ripresa economica si è dissolta, gli interessi nazionali hanno cominciato a divergere. La collaborazione tra le banche centrali è ormai quasi soltanto di facciata ed è stata sostituita da una competizione per svalutare al massimo la propria moneta, portar via agli altri Paesi, grazie al basso cambio, quote del mercato internazionale e rilanciare così la propria economia, senza curarsi dell’interesse collettivo alla crescita.

Nelle ultime settimane il Giappone ha annunciato un programma-urto di spesa pubblica finanziata da nuova moneta con lo scopo dichiarato di far scendere il cambio per favorire le esportazioni nipponiche e stimolare l’economia. Il dollaro, però, si era mosso per primo su questa strada offensiva, con la creazione in grande stile di nuova moneta (la terza volta dall’inizio della crisi) che ha depresso il cambio del dollaro nei confronti dell’euro facendogli perdere, da luglio, all’incirca il 10 per cento del suo valore. E’ una tradizionale strategia americana quella di far leva su un cambio debole che rende meno care agli stranieri le merci esportate. In passato, il successo era però più facile perché non c’erano sostituti al dollaro; ora il dollaro può essere rimpiazzato dall’euro e, in piccolissima parte, anche dallo yuan cinese.

La Cina e molti altri Paesi, tra i quali il Brasile, si difendono dall’assalto dei dollari appena stampati scoraggiando con imposte, o addirittura vietando, importazioni e investimenti esteri sul loro territorio. L’aggressività della svalutazione monetaria provoca così, dall’Argentina alla Russia, un crescente protezionismo. Nel nuovo clima protezionistico, che dissolve molte illusioni sui vantaggi dei mercati totalmente liberi, persino Canada e Stati Uniti hanno bloccato negli ultimi mesi gli acquisti di importanti imprese nazionali da parte di acquirenti stranieri.

Per fortuna, la guerra delle valute e la sua appendice protezionista non producono morti o distruzioni fisiche. Contribuiscono però a creare disoccupati - più di 200 milioni nel mondo, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con un aumento di 67 milioni dall’inizio della crisi – e aspettative negative. La «malattia italiana» che il presidente del Consiglio ha presentato senza veli a Davos, si configura così come un caso acuto di una malattia mondiale contro la quale né i politici né gli economisti sembrano avere cure miracolose ma solo la tenue e non del tutto convincente promessa di una lenta guarigione: un male comune che, a dispetto del proverbio, proprio non ci procura un mezzo gaudio.
mario.deaglio@unito.it