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 2013  gennaio 24 Giovedì calendario

«QUESTA ERA LA MIA PRIGIONE. COSI’ MI HA CAMBIATO LA VITA» —

L’Andrea di prima non si faceva domande davanti alla luce spenta fuori casa. Adesso si guarda attorno cento volte prima di scendere dall’auto. Quell’Andrea non aveva fretta di riavere un cane dopo la morte di Argo, il suo vecchio alano. Ora vuole due pastori tedeschi e il più in fretta possibile. Prima del 16 dicembre gli sembrava superfluo un sistema che illuminasse la casa dall’esterno. Adesso ne vuole uno che si attivi con il telecomando. Ma vuole anche andare a vivere da solo, ha in mente un viaggio in Africa con un suo amico d’avventura e gli piacerebbe risistemare l’azienda da capo a piedi.
L’Andrea Calevo del 2013 è tutto questo e molto altro ancora. Ha 31 anni ed è una fabbrica di idee per il futuro, di cose da fare, fare, fare... Ma ha anche scoperto cos’è la paura di morire e cosa conta davvero quando non sai se ci sarà altro tempo da vivere. «E queste sono cose che segnano, è inutile fare finta e dire che non ci penso mai» ammette.
Rapito la sera del 16 dicembre e liberato la mattina del 31. Quindici giorni nelle mani di due italiani (Pier Luigi Destri, 70 anni, e il nipote ventenne Davide Bandoni) e di un gruppetto di giovani albanesi. «Ricordo che ho pensato al mio amico Antonio, come prima cosa, quando ho saputo di essere un sequestrato. Il giorno prima del rapimento lui partiva per un viaggio in jeep e il programma prevedeva un passaggio in Sudan. Salutandolo gli avevo detto "guarda che in quei posti lì ti rapiscono". Manco a dirlo... hanno rapito me a Lerici!».
Alle spalle della scrivania di Andrea c’è un quadro enorme che mostra uno scorcio della sua Lerici. «Quest’angolo, il castello, questo pezzo di mare... è un posto bellissimo» dice. «Queste case qui non esistono più», indica, «erano del mio bisnonno e le hanno buttate giù durante la guerra. È stato lui a mettere in piedi l’azienda nel 1888». I Calevo vendono materiali edili e Andrea giura di non aver mai desiderato fare altro che questo: «Mio padre è morto nel ’97 sotto i ferri durante un’operazione chirurgica, io ero un ragazzetto. Ricordo lo choc di quella notizia e l’idea, immediata, che avrei continuato io al posto suo. Sono diventato geometra, poi la laurea in Economia e commercio e adesso eccomi qui».
Il viavai di camion, furgoncini, carpentieri, falegnami, sembra divertirlo. Risponde al telefono mentre dà indicazioni ai suoi operai su questo o quello, decide misure, ordini. «Mi sono sempre occupato di queste cose, per me è facile» annuncia prima di mettersi a disegnare su un foglietto la sua prigione. La penna rossa traccia i muri, il letto, la catena, la lampadina, l’altezza. Una cella ricostruita con la precisione di un «tecnico»: «Era alta due metri e dieci, qui c’era una paretina di legno spessa 25 centimetri, qui invece era tutto cemento armato... Facevo flessioni e piegamenti e poi ogni giorno mille giri della stanza, ho fatto il conto: più o meno cinque chilometri, per non lasciarmi andare». Ai suoi rapitori ci pensa mai? «Diciamo che se avessi davanti il vecchio gli direi che è un uomo spregevole, non solo perché mi ha rapito ma anche perché ha plagiato dei ragazzini. A suo nipote direi: "Svegliati, fa qualcosa, prova a salvarti", poveretto... era proprio fuori di testa. Faceva il duro ma non lo era». Si ferma davanti a un pensiero: «Mi hanno detto di non difenderlo troppo, perché sennò magari intenerisco i giudici». Cerca parole più adatte: «Quel ragazzo — dice — deve pagare per quello che ha fatto, è chiaro. Ma spero che alla fine lo recuperino».
Giusi Fasano