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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

ALLA SCOPERTA DELL’ANIMALE DA SCRIVANIA


HO LAVORATO NELLO STESSO POSTO per cinque anni di fila e da cinque anni, con una cadenza di almeno una volta alla settimana, il mio amministratore delegato mi appare in sogno. In cinque anni quest’azienda in cui ancora oggi presto felicemente servizio ha cambiato assetto societario, consiglio d’amministrazione, organigramma, ha cambiato almeno tre volte sede operativa, ha differenziato le linee di prodotto, sviluppato la propria presenza sul mercato, modificato la committenza, e assieme alle evoluzioni dell’azienda si è evoluto il mio ruolo nella medesima.
Un percorso di carriera (come si dice) che, partito dal pozzo nero di disperazione del post-laurea, si è rivelato col senno di poi coerente con gli studi pregressi e sempre più in linea con le mie aspirazioni personali. Sempre più tangente, insomma, con una certa idea di serenità, di realizzazione di me come essere umano in armonia con il cosmo. Tangente: non ancora perfettamente collimante, ma a trentunanni in Italia – mi dicono – ci sta.
In parallelo, si è evoluto anche il mio rapporto personale con l’amministratore delegato, per essere precisi la mia immagine mentale del mio amministratore delegato visto che le nostre comunicazioni avvengono prevalentemente via mail: dalla cieca idolatria animista dei primi tempi, alla matura stima professionale di oggi, in trompe l’oeil sullo sfondo dei suoi meritati successi.
Stabile, in questi cinque anni, è rimasta solo una cosa. La presenza dell’amministratore delegato nel mio mondo onirico. Una presenza nella primissima fila, anzi no, sul proscenio del mio mondo onirico: quello che il mio amministratore delegato condivide con la santa trinità di Mio Padre, Mia Madre, e la mia Ex Fidanzata.
I ruoli della rappresentazione sono grossomodo sempre gli stessi, con qualche minuscola variazione. Mio Padre mi fa incazzare per un’inezia e tira fuori dal mio stomaco un leviatano di rabbia informe, gigantesco: serenità un corno! – realizzo di colpo – essere umano in armonia eccetera un corno! Io dentro di me sto covando da anni una metastasi ed è irreversibile, incurabile. Alle volte lui è vestito da cacciatore di beccacce, altre ha le fattezze di mia zia, una volta giaceva sul letto con un pezza in faccia ma, insomma, miserabile taccagneria della Mio Inconscio Production: la maschera è sempre quella. Come pure le altre: Mia Madre puntualmente si ammala, muore e ci lascia soli al mondo per sempre: io e il mio mostruoso senso di colpa per tutto il bene che non sono riuscito a restituirle. La mia Ex Fidanzata risulta incinta – quasi sempre non consenziente di individui più o meno disparati, più o meno loschi, ma che non sono mai io. Il mio Amministratore Delegato però è una certezza: smessi i panni di manager illuminato e no-nonsense che gli conosco da sempre, indossa la cotta di maglia di un sacrificatore medievale e di solito mi decapita meritatamente su un altare di pietra perché ho dimenticato di rispondergli a una mail.
INUTILE DIRE CHE NON È COLPA SUA. Che la vera sostanza del lavoro sia un materiale sottile e allegorico, fatto apposta per penetrare sotto gli strati profondi della vita quotidiana, lo sapevo già. Lo sapevo da quando, prima di questi ultimi cinque anni, coltivavo anch’io i feticci della carriera come termometro dell’esistenza integrata, della percezione pacificata di me stesso in quanto individuo risolto che lavora e produce e stop. Già all’epoca sentivo quest’ansietta che non riuscivo a spiegarmi. Adesso la capisco l’ansietta, la capisco eccome: concludere un essere umano dentro il perimetro del lavoro che fa significa escludergli ogni possibile via di comunicazione con l’universo.
Il problema non è il lavoro, ovvio. Lavorare, di per sé, sarebbe un magnifico territorio di scambio d’energie tra individui della stessa specie: è così per me quando sono sveglio, è così per le api, è così per i macachi, è così per la Paedophryne Amauensis della Nuova Guinea, che comunque è solo una ranocchietta, peggio, la rana più piccola del mondo. In tutta la biosfera, solo in questo nostro Occidente il lavoro finisce fatalmente per trasformarsi in una specie di misuratore di qualità dell’individuo adulto. Ed è questa deformazione che, anziché evolverli, fa regredire gli esseri umani negli uffici verso stadi di molto anteriori al loro sviluppo di specie. Ecco che le vite negli uffici si trasformano in teatri di dinamiche ancestrali, primitive, di logiche di branco e sopraffazioni: dietro ogni scrivania cova di continuo l’animale, dietro ogni macchinetta del caffè un potenziale sacrificio umano, per fortuna quasi sempre solo in forma di metafora.
E per piacere non venitemi a dire che l’uomo può vivere tranquillamente senza parlare con l’universo solo perché la domenica i multisala sono pieni di gente. È l’universo che ci chiama. Altrimenti non si spiega perché proprio stamattina, un attimo prima di mettermi a scrivere il pezzo che state leggendo, l’universo mi ha messo in mano Cuore di Tenebra di Conrad, precisamente nel punto in cui Marlow ha appena finito di riparare il suo stramaledetto battello: «Avevo scoperto quello che sapevo fare. No, non è che io ami il lavoro. Preferisco stare senza far niente a pensare a tutte le belle cose che si possono fare. Non mi piace lavorare. A nessuno piace. Però amo ciò che c’è nel lavoro. La possibilità di scoprire se stessi. La propria realtà, valida per noi, non per gli altri. Quello che nessun altro potrà mai sapere. Gli altri possono notare solo la parte esteriore».